Accoglienza e Integrazione

Gabriella Carlon
19-07-2018
Si sente dire: ma come si fa ad accogliere tutti? Infatti, non è possibile. Ma sono da studiare strategie di accoglienza, non di respingimento, mentre il nostro Ministro degli Interni, avendo come modelli Trump e Orban, vuole solo respingere.
Quale accoglienza possibile?
Innanzitutto si dovrebbe superare la Convenzione di Ginevra (1951) nata in altri tempi e con altri obiettivi. Oggi non può sussistere la distinzione tra rifugiati e migranti economici, come se questi ultimi partissero per capriccio e non per fuggire dalla fame.
Certo bisogna combattere l’illegalità e i traffici degli scafisti, ma invece di inventarsi presidi militari nel Mediterraneo e carceri in Libia, si tratta di adottare provvedimenti che prevedano ingressi regolari (cosa oggi impossibile) e imbarchi altrettanto regolari. Non si possono tollerare arrivi irregolari, disordinati e casuali, però bisogna agire per la creazione di canali di accesso umanitari e regolamentati. E’ l’unico modo per sconfiggere gli scafisti.
Il numero dei migranti da accogliere dovrebbe essere ugualmente regolamentato, prendendo come parametro di base il fabbisogno di manodopera stimato necessario nei diversi stati dell’Unione Europea. La denatalità e la conseguente diminuzione della forza lavoro nazionale è un problema molto serio, particolarmente in Italia; L’affermazione che i migranti portano via il lavoro a tanti giovani italiani, che perciò devono emigrare, in realtà non ha alcun senso perché si tratta di settori diversi del mercato del lavoro: quali giovani italiani farebbero i mungitori nella Bassa padana o i badanti degli anziani o gli addetti a lavori pesanti in fabbrica o in agricoltura? Non esiste quindi concorrenza tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. Un vero problema urgente è anche, piuttosto, sconfiggere in Italia la vergognosa piaga del lavoro nero sia per gli stranieri sia per gli italiani. La realtà dimostra che una quota di lavoratori stranieri è necessaria per il buon andamento non solo dell’economia italiana ma dell’economia dell’Unione europea. Il Regolamento di Dublino va superato al più presto e non su base volontaria.
Con il prolungamento della vita da una parte e la denatalità dall’altra, il sistema socio-economico europeo sarebbe insostenibile se non fosse alimentato nella sua popolazione da quei paesi che hanno un incremento demografico rilevante, Africa in primo luogo. Per riequilibrare la situazione, si possono regolamentare gli ingressi, mentre è del tutto insensato chiudere le frontiere, non solo per motivi umanitari ma anche per ragioni economiche. Non a caso gli imprenditori agricoli e industriali se ne sono sempre serviti abbondantemente e con significativi riscontri economici. Anche a livello nazionale, del resto, sono evidenti, anche se non immediatamente percepiti, i vantaggi derivanti dall’immigrazione: apporto al PIL e all’IRPEF, contributi all’INPS in misura, almeno per ora, superiore rispetto alle prestazioni erogate.
Va infine ricordato che le migrazioni, nel corso della storia, non sono mai state fermate da muri e sbarramenti militari neanche sulla terraferma, figuriamoci in un mare come il Mediterraneo che è per la sua storia un ponte tra popoli e civiltà diverse.
Quanto all’affermazione “aiutiamoli a casa loro” è indubbiamente un obiettivo lodevole, ma, come ho già chiarito in un precedente articolo, non si tratta di inviare delle “briciole”, come sta facendo l’Unione Europea, ma di incrementare uno sviluppo davvero sostenibile dell’Africa, senza spogliarla delle sue ricchezze e senza alimentare guerre intestine.
Politiche migratorie adeguate eviterebbero che la fatica dell’integrazione pesasse solo sui ceti sociali più bassi e sulle periferie delle città (già abbastanza problematiche). In queste aree di concentrazione degli immigrati nascono purtroppo sentimenti xenofobi e razzisti, e non solo qui. Nella vita quotidiana spesso si percepisce lo straniero come un concorrente per l’assegnazione della casa, per il posto all’asilo nido, per le code all’assistenza sanitaria e in genere per l’accesso ai servizi che è già difficoltoso per gli autoctoni. Non bastano evidentemente le prediche e i buoni sentimenti; bisogna che i servizi funzionino bene e che le difficoltà connesse al processo di inclusione di chi viene percepito come diverso sia distribuito sul territorio e su diversi ceti sociali, attraverso la scuola in primo luogo, ma anche con la creazione di iniziative in ambiti comuni per favorire la conoscenza reciproca. Perché le ONG che si occupano di progetti nel Sud del mondo non mettono in atto progetti interculturali sul territorio? Non sarebbe anche questa un’importante attività di cooperazione?
Per i migranti e per gli autoctoni è necessaria una formazione culturale che crei identità non rigide ma disposte ad arricchirsi di elementi nuovi avvicinandosi all’altro, mettendo in discussione usi e costumi radicati, aprendosi a culture e religioni diverse: ciascuno deve costruirsi un equilibrio tra la propria identità e lo scambio con soggetti altri, diversi. La convivenza va costruita; certamente non si ottiene con muri fisici e mentali o proclamando “prima gli italiani” perché vi sono diritti elementari che spettano a tutti gli appartenenti al genere umano e noi siamo prima persone umane e poi italiani. Non si può continuare a chiudere i migranti nei ghetti, in Italia o in Libia o in Niger, ma bisogna creare forme di accoglienza dignitose e di breve periodo, favorendo i ricongiungimenti familiari (che sono un fattore di equilibrio) e sveltendo tutte le pratiche burocratiche e diplomatiche per un’equa distribuzione dei nuovi arrivati tra tutti gli stati europei.
Questa politica di chiusura verso un fenomeno epocale di dimensioni incontenibili aumenterà i consensi elettorali di chi la persegue, ma impedirà al nostro paese di attuare una transizione verso il futuro graduale e proficua per tutti.

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