Eraldo Rollando
10-11-2016
E’ passato molto tempo da quando le nostre bisnonne, ma anche i loro mariti, andavano al mare a fare il bagno in un costume che a noi, oggi, sembrerebbe, appunto, fuori tempo.
In questi anni siamo cresciuti, ci siamo evoluti, abbiamo assunto una mentalità più liberale, più aperta e pronta ad accettare nuove mode: in altre parole siamo diventati moderni.
Ma è proprio così? Siamo convinti di essere riusciti a guardare lontano? A veder oltre le apparenze? A superare le differenze?
A guardare quello che ci succede attorno si direbbe di no. Siamo sempre pieni di paure, e l’incontro con la diversità ci sgomenta.
E così, questa estate, abbiamo avuto la conferma di questo. E’ bastato che alcune donne di religione islamica si presentassero in una spiaggia di Cannes con il burkini islamico, un costume da bagno abbastanza simile a quelli in uso dalle nostre parti agli inizi del secolo scorso, per fare partire subito il divieto.
Il sindaco di centrodestra della città francese, David Lisnard, ha prontamente emesso un’ordinanza per vietare sulle spiagge cittadine questo indumento che “manifesta in maniera ostentata un’appartenenza religiosa …. e rischia di creare disturbo all’ordine pubblico”. In questa sua presa di posizione Lisnard è stato seguito da 30 municipalità della Costa Azzurra.
Tutto ciò, in virtù della laicitè – che possiamo tradurre in secolarismo – secondo la quale la separazione tra Stato e Chiesa deve essere netto e nessun simbolo religioso può intaccare i “diritti dell’uomo e del cittadino” conquistati dalla Rivoluzione francese. Vedremo più avanti, però, come il concetto di laicitè portato su posizioni esasperate entri in collisione con altri diritti.
Si può ben comprendere la sensibilità francese su ciò che riguarda persone appartenenti alla fede e alla tradizione islamica, viste le tragiche vicende subite da quella nazione a causa di gruppi fanatici, che proprio a Cannes hanno attuato il loro disegno criminale.
La nostra partecipazione al loro dolore e la nostra vicinanza è fuori discussione, ma sembra eccessivo, però, che un costume da bagno possa “creare disturbo all’ordine pubblico”.
In Italia e nella stessa Francia le censure non sono mancate, anche ad alti livelli istituzionali.
In una intervista nell’immediato, il 16 agosto 2016, al Corriere della Sera, il nostro ministro dell’interno, Angelino Alfano, ha manifestato l’intenzione di non emettere alcuna ordinanza in merito e, giudicando negativamente questa decisione francese, ha dichiarato: ” Il ministro dell’Interno ha la responsabilità di garantire la sicurezza e di scegliere il livello di durezza nelle risposte che però non diventi mai provocazione potenzialmente capace di attirare attentati” e, in particolare, sul divieto all’uso del burkini: “Non mi sembra, ahimè, che il modello francese abbia funzionato per il meglio”
Fortunatamente, a rimettere le cose nella loro giusta proporzione, in Francia, è stato soprattutto l’intervento del Consiglio di Stato (massima autorità giudiziaria amministrativa nazionale) sulla base di un ricorso presentato dalla Lega dei diritti dell’uomo (Ldh) e il Comitato contro l’islamofobia locale. Il 26 agosto, si è espresso contro l’ordinanza dei sindaci della Costa Azzurra: “L’ordinanza controversa” che vieta di indossare il burkini “ha rappresentato una violazione grave e apertamente illegale delle libertà fondamentali, che sono la libertà di movimento, di coscienza e la libertà personale …
Questi decreti non rafforzano la sicurezza – si legge nel comunicato – ma, al contrario, alimentano intolleranza religiosa e discriminazione dei musulmani in Francia, in particolare le donne. La parità di genere non si ottiene regolamentando i vestiti delle donne”.
Purtroppo, però, si teme che la partita non terminerà in questo modo. Infatti, Nicolas Sarkozy, da candidato alle presidenziali 2017, al suo primo comizio ha promesso che vieterà “l’utilizzo del burkini su tutto il territorio francese” e di voler “ristabilire l’autorità dello Stato”. “Con me di nuovo all’Eliseo, il burkini sarà vietato”. E’ vero che queste parole sono state pronunciate prima della decisione del Consiglio di Stato, ma questo non ci orienta, comunque, all’ottimismo.
Ma, cos’è il burkini (o burqini)?
A differenza del nostro “due pezzi” (e anche “un pezzo-tanga”), che lascia scoperta, a volte, una distesa smisurata del corpo femminile, il burkini è un “tre pezzi”ed è composto da pantaloni, casacca e cappuccio che lascia scoperti solo piedi, mani e viso: una specie di burqa da bagno.
La parola risulta dall’unione tra bikini e burqa, il velo islamico che copre integralmente le donne dell’Afganistan.
Perché viene usato?
Così come al burqa o ad altri indumenti meno severi, anche al burkini viene attribuito un significato religioso, ma non è sempre così, o forse non esattamente così. Molto spesso esprime un’attitudine più generale della cultura islamica “patriarcale”che non corrisponde di necessità ad una ideologia politica o radicale (leggi terroristica).
Le donne indossano questi indumenti, sovente, per imposizione degli uomini, ma anche per libera scelta, come segno di donna fedele ai principi religiosi, più vicini alla Sunna – la “Tradizione” scritta durante i secoli dopo Maometto – che non al Corano.
In altri casi la donna utilizza questi indumenti per “velarsi” e potersi muovere liberamente senza dovere esporre il proprio corpo a sguardi indiscreti.
Dove nasce? Chi lo ha immaginato?
La sua invenzione si deve a Aheda Zanetti, una stilista australiana, mussulmana, di origine libanese, fondatrice della casa di moda Ahiida Pty Ltd (AHIIDA) . Ha visto la luce nel 2003 e viene venduto in tutto il mondo al prezzo medio di cento euro.
Dall’Australia ha iniziato a diffondersi anche nei Paesi del Medioriente, nell’America del Nord, fino a raggiungere l’Europa.
Il marchio burkini – burqini è registrato, secondo le migliori tradizioni commerciali, ed è sponsorizzato dal sito web di Ahiida Pty Ltd all’indirizzo http://ahiida.com/ (cliccare sul link per accedere al sito)
Concordo senz’altro con le osservazioni di Eraldo. Ma leggendo l’articolo mi è accaduto, forse a causa della mia veneranda età, di tornare con il pensiero all’enorme peso delle pressioni culturali e/o religiose che condizionavano gli adolescenti della mia generazione: un apparato riti formali, inutili e fastidiosi, ma ineludibili se non si voleva essere emarginati dal mondo delle persone “per bene”. Per chi non avesse vissuto quell’atmosfera vorrei richiamarne alcuni aspetti di varia entità, ma tutti significativi: il pater familias aveva un potere quasi indiscutibile, in qualche caso mantenuto a suon di ceffoni; la madre aveva un ruolo di cura importante, ma era subalterna e non poteva farsi valere nelle decisioni familiari più rilevanti; i figli non avevano voce in capitolo fino a quando non entravano nel mondo del lavoro e non sempre potevano scegliere quali studi seguire; l’approccio alla religione era imposto dalla famiglia non tanto (o non solo) per ragioni spirituali ma spesso per motivi di immagine pubblica. La Chiesa era rigorosamente tradizionalista: per ricevere i sacramenti era obbligatorio portare il velo o il cappello; all’Università Cattolica si doveva assistere alle lezioni con un funereo grembiule nero e perfino nei mesi più caldi le studentesse non potevano varcare la soglia dell’ateneo con abiti senza maniche, mentre i ragazzi che non indossavano una giacca non potevano portare la camicia o la t-shirt infilata nei calzoni – forse per non far nascere… cattivi pensieri. Per le ragazze le restrizioni erano innumerevoli. Le adolescenti passate precocemente dai calzini di cotone alle calze di nylon erano considerate poco serie; le uscite serali erano sempre oggetto di frustranti discussioni e quasi sempre negate; rendersi indipendenti dalla famiglia di origine, anche dopo la laurea, comportava un giudizio tassativo di immoralità… Per non parlare delle coppie separate, che facevano scandalo: se gli ex coniugi iniziavano una nuova storia d’amore venivano additati come concubini, erano banditi dalla comunità religiosa e dai sacramenti ed erano oggetto di discriminazione in molti ambiti.
C’è voluta una rivoluzione culturale/generazionale per portare avanti in ogni parte d’Italia, e con fatica, la difesa di diritti fondamentali in tema di libertà. E c’è voluta una legge sul divorzio, molto contrastata, per far discutere l’intera collettività (e non solo gli studenti “ribelli”) su temi scottanti che riguardavano la differenza tra forma e sostanza, tra preconcetti e analisi dei fatti reali, tra autoritarismo e autorità.
Pensando a tutto ciò, di fronte a questioni come quella del burkini mi chiedo se molte ragazze musulmane non provino lo stesso senso di soffocamento o di fastidio che provavo io (in tutt’altro contesto) nel dover sottostare a regole che impongono di nascondere l’intero corpo, quasi si trattasse di qualcosa di vergognoso o diabolico, e non di un dono del Dio in cui credono. Se così fosse, la legge proclamata sulla Costa Azzurra potrebbe rappresentare – paradossalmente – un’ancora di salvezza per chi non vede l’ora di togliersi quel capo di abbigliamento imposto e di confondersi senza “marchi di fabbrica” tra le ragazze della propria età.
Fuori dal paradosso, è chiaro che una simile legge (nel caso fosse riproposta) sarebbe una sfrontata negazione dei principi di libertà sanciti dalla Costituzione francese e dall’Europa, in evidente contraddizione con i valori del mondo occidentale tanto orgogliosamente sbandierati dagli stessi politici che sembrano strizzare l’occhio a un’atmosfera da crociata.