Cultura gastronomica

Laura Mazza
14-02-2017
La nostra cultura gastronomica spazia tra TV, riviste specializzate e non, e pubblicità, però non conosciamo più le stagionalità dei prodotti e gli alimenti vengono presentati sempre come piatti per le grandi ricorrenze. Abbiamo fame. Forse quella fame primordiale che cerca nel cibo la pace, la sazietà e la serenità perdute. Torna alla mente quel monologo in grammelot del “Mistero Buffo” di Dario Fo, la “Fame del Zanni”. Un uomo povero che sfinito dalla fame si addormenta e sogna di mangiare tanto, tantissimo, ma non riuscendo a saziarsi incomincia a mangiare parti del suo stesso corpo lasciando solo la bocca per potere continuare a mangiare. La conclusione ha poi un risvolto grottesco per il povero Zanni, e forse diventa, questa continua rappresentazione del cibo, un po’ grottesco anche per noi. Noi, infatti, abbiamo il nostro grottesco con la rappresentazione continua nelle pubblicità e nei supermercati dei cibi “senza”. Senza glutine, senza lievito, senza zucchero, senza nitrati aggiunti, senza grassi saturi, senza grassi idrogenati, senza olio di palma (l’ultimo “senza” in ordine di tempo) e tanti altri “senza” che non nominiamo nemmeno più tipo l’olio di colza, o l’olio di cotone usato nei fritti industriali perché aggiunge un buon sapore. Resta, però il fatto che il cibo “senza” mette un pochino a disagio anche perché il pensiero corre al fatto che se un certo elemento viene tolto dalla lavorazione industriale significa che forse è nocivo, ma al tempo in cui nessuno ne parlava, era invece un ingrediente di un prodotto ottimo o di una golosità di cui non si poteva fare a meno. Nei supermercati, la grande distribuzione non si scompone e mette in vendita sia il cibo “senza” sia il cibo “con”, infatti c’è tanto, c’è tutto e c’è sempre, lasciando al consumatore la scelta. Frutti e ortaggi anche fuori stagione, pesci che non verrebbero pescati quando non è il tempo giusto, e poi sempre il pollo e sempre la fettina magra di vitello. Per fortuna! Girando in alcuni Paesi mi è capitato di trovare mercati e supermercati un po’ sguarniti, magari con sola frutta quel giorno, oppure sola carne, dunque noi siamo fortunati. Se però ci soffermassimo un pochino di più sul pensiero di come otteniamo tutta questa abbondanza, forse non saremmo più così sicuri della nostra fortuna. Qual è il suo prezzo? E’ facile: per avere sempre uova, sempre latte, sempre polli, sempre carni ci vogliono gli allevamenti intensivi, dove gli animali non vivono come fanno immaginare fantasiose inquadrature pubblicitarie. E’ anche vero che già da qualche tempo in adesione ad alcune direttive europee c’è una grande attenzione al benessere di questi animali, però è giusto sapere che spesso negli allevamenti si fa un grande uso di antibiotici, che non viene rispettato il periodo di riproduzione e che per produrre 1 kg di carne ci vogliono 10 kg di cereali e 15000 l di acqua e che gli animali finché sono in vita producono grosse quantità di CO2 . Il seguito è sotto gli occhi di tutti, una infinità di prodotto impacchettato, esposto sui banchi della grande distribuzione in grandi quantità, ma se poi il prodotto rimane invenduto nessuno potrà beneficiarne. Non mi dilungo oltre, l’argomento è stato trattato ampiamente nella nostra ultima pubblicazione “ Dall’odissea della crisi al cambio di rotta un nuovo modello di sviluppo” EDB Edizioni.
Un altro tema difficile da affrontare ma che non deve essere ignorato è quello dei prezzi. La grande distribuzione se ne fa un grande vanto per essere in grado di offrire alla propria clientela e magari anche a quella nuova, ottenuta proprio attraverso un lavoro di concorrenza, dei prezzi “sempre più bassi”. Ma i prezzi bassi significano sfruttamento alla fonte; per esempio il grano costa € 21,00 al kg di prodotto finito, però chi compera vuole pagare se va bene € 19,00 al kg o addirittura € 16,00 al kg come è successo questa estate in Molise, dove gli agricoltori sono scesi in sciopero perché a questi prezzi non hanno alcun tipo di compenso. Il problema è che l’industria dell’alimentare ha trovato subito molto più vantaggioso il grano canadese che ha un costo ridotto perché viene lavorato in altro modo inondando i campi di diserbante che ne facilita la raccolta. E per tutto il resto è la stessa cosa, le angurie a 0,50 cent sul campo, la fettina magra a un prezzo inferiore, ma c’è da chiedersi se in quegli allevamenti, posto che siano italiani, vengono fatti tutti i controlli a dovere. Inoltre i costi dei trasporti, l’immagazzinamento e i frigoriferi che consumano energia, vanno di sicuro a sfavore della qualità delle merci. Uso appositamente il termine “merci” perché non viene nemmeno più considerato cibo. Di sicuro sarebbe di gran lunga meglio avere da consumare solo quello che è di stagione riducendo gli sprechi considerando anche l’inutilità di sacrificare troppi animali e di coltivare troppe zucchine e pomodori solo perché possano essere acquistati sempre e ovunque. L’Associazione consumatori http://www.associazionedifesaconsumatori.it/ )sostiene che lo spreco di cibo in Italia è pari a 5,5 milioni di tonnellate/anno. Ogni anno in Italia vengono buttati via 12,3 miliardi di euro di cibo, di cui la metà direttamente dai consumatori (6,9 miliardi). Si tratta di 42 kg a persona di avanzi non riutilizzati e alimenti scaduti o andati male, per uno spreco procapite di 117 euro l’anno
fonte:avvenire.it

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