Legge sulla tortura: tardiva e lacunosa, ma da difendere

Adriana F.
2-04-2019
Correva l’anno 1989 quando il nostro governo ratificò la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite e sono occorsi quasi trent’anni per approvare una legge che introducesse tale reato nel nostro Codice Penale. L’assenza trentennale di un tema così importante dall’agenda dei nostri governi è dipesa senza dubbio dal susseguirsi di seri problemi di stagnazione economica, ma certamente è anche mancata la volontà politica di affrontare con determinazione una materia “delicata”, capace di suscitare malumori e divisioni negli ambienti a cui sarebbe stata applicata la nuova legge.
La tortura, del resto, risulta spesso un argomento scomodo da affrontare, perfino per le persone che credono sinceramente nei diritti umani, forse perché la parola evoca inquietanti scenari del passato, quando l’individuo incriminato non aveva alcuna possibilità di difendersi e la confessione (vera o improvvisata) veniva estorta infliggendo atroci sofferenze. È facile, quindi, che il problema disturbi a livello inconscio e venga perciò rimosso o che si preferisca ignorarlo con la scusa che oggi tali trattamenti non si praticano più, almeno nei paesi occidentali dove vige il Diritto con la D maiuscola.
Purtroppo non è così, e in Italia lo hanno dimostrato in questi anni alcuni episodi di violenza ingiustificata messi in atto da alcuni elementi delle forze dell’ordine. Esemplari, in tal senso, sono il caso Stefano Cucchi e i fatti di Genova in occasione del G8 svoltosi nel 2001. Quest’ultima vicenda, come è noto, ha avuto risonanza anche oltre confine, tanto che nell’aprile 2015 la Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione nella scuola Diaz di Genova. In quella circostanza, secondo i giudici europei, le azioni della polizia ebbero «finalità punitive» e ci fu una vera e propria «rappresaglia per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime». Tutto ciò fu considerato «tortura» e l’Italia fu invitata a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti, impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte».
La condanna e la sollecitazione dei partner europei hanno fatto accelerare i tempi e, finalmente, il 5 luglio 2017 anche il nostro paese ha legiferato sul reato di tortura introducendo gli articoli 613-bis e 613-ter nel Codice Penale. Questo è il nucleo centrale del testo approvato (in cui abbiamo evidenziato i termini più contestati):

Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.
Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Molte furono le criticità rilevate dagli esperti del settore, a partire dalla definizione del reato, che fu considerata alquanto riduttiva rispetto al testo della Convenzione ONU. Tra i primi a protestare ci fu il ministro Manconi, primo estensore della proposta di legge, che rifiutò di votare la versione finale. «Le modifiche approvate – disse – lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un “verificabile trauma psichico”. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?». (il Post, 5/07/017)
Fu inoltre osservato che nella Convenzione ONU il reato di tortura mirava a punire specificamente i casi di “abuso di potere”, e non qualsiasi tipo di comportamento violento tra privati cittadini (già punibili in base ad altri articoli del codice penale).
Altri giuristi fecero notare che può esservi tortura anche se la persona non è privata della propria libertà, come di fatto era avvenuto alla scuola Diaz, mentre la norma adottata definiva come necessaria tale circostanza. Il risultato paradossale era che la legge sarebbe stata inapplicabile a fatti simili a quelli di Genova, già qualificati come tortura dalla Corte europea. (Unione delle Camere Penali Italiane)
Lo stesso Comitato ONU contro la tortura nel dicembre 2017 rivolse al nostro paese alcune raccomandazioni sui cambiamenti da apportare perché non venissero a crearsi spazi reali o potenziali di impunità. Oltre a ciò si chiedeva di garantire che tutte le vittime di questo reato ottenessero riparazione. Ma da allora nessun cambiamento è stato fatto.

Nonostante gli aspetti problematici sopra sintetizzati, anche i critici più severi si sono sempre trovati d’accordo nell’affermare che una legge imperfetta e “addomesticata” è sempre meglio di un vuoto normativo. «Ponendo fine alla rimozione della tortura, alla sua indicibilità – ha spiegato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International – la legge permette di superare una situazione di grave inadempienza che costringeva i giudici a mascherare una delle più gravi violazioni dei diritti umani, classificandola come reato banale o come semplice abuso d’ufficio, con la conseguenza di punirla in modo lieve o di non punirla affatto per effetto della prescrizione».
Di tutt’altra opinione si è dichiarata la figura leader di un partito di destra, che nel luglio 2018 e in altre occasioni successive ha affermato di voler cambiare la legge, ritenendola limitante per le forze dell’ordine. La presa di posizione è stata lanciata inizialmente con un tweet (contestatissimo) che ne chiedeva l’abolizione tout court, e poi correggendo il tiro. A suo avviso, come ha detto in un’intervista, gli uomini e le donne in divisa devono poter svolgere il loro lavoro in sicurezza e con dignità, mentre con l’introduzione del reato di tortura «gli agenti sono stati mortificati» e non sono stati messi in condizione di svolgere il loro lavoro perché basta un insulto per rischiare pene fino a 12 anni. Da qui la sua proposta di trasformare il reato in una semplice “circostanza aggravante” (Huffington Post, 12/07/2018)
Simili esternazioni, oltre ad avere poco riscontro nella realtà, suscitano preoccupazione perché fanno presagire un attacco oscurantista contro le misure appena adottate per concretizzare un diritto riconosciuto in tutti i paesi democratici e accolto anche dall’Italia, che lo ha introdotto nella Costituzione (Art. 13).
L’aspetto surreale della questione è che, in caso di proposte peggiorative, proprio chi ne ha evidenziato i limiti e la scarsa efficacia sarebbe costretto a difendere questa legge mediocre per evitare che diventi del tutto impossibile rendere giustizia alle vittime di tortura e ai loro familiari.

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