Paesi poveri o impoveriti?

Gabriella Carlon
08-12-2017
Quando diciamo paesi “poveri” il nostro pensiero corre alla fascia sub- sahariana dell’Africa (*)

Nord Africa in Giallo, Sahel in Azzurro, Africa Sub-Sahariana in Verde

che, infatti, comprende i paesi più poveri al mondo. Da qui si alimentano flussi migratori corposi che si riversano, in piccola parte, anche in Europa.
I dati sulla povertà sono sconcertanti. Secondo la Banca mondiale, nel 2015, il 43% della popolazione di quell’area vive con meno di 1,90 dollari al giorno; diminuita in percentuale rispetto al 1990 (56%) ma aumentata in termini assoluti: da 284 a 388 milioni. Inoltre il 67% della popolazione vive con meno di 3,10 dollari al giorno e non si può certo dire che sia una cifra congrua.
Se però guardiamo al territorio dei paesi subsahariani, scopriamo che si tratta di terre tutt’altro che povere; anzi sono ricche di minerali molto preziosi, di petrolio, di gas, di mari pescosi, di biodiversità del patrimonio vegetale. Inoltre il PIL sta crescendo in questi anni a ritmi sostenuti (circa il 5%). Come si spiega il divario tra ricchezza del territorio e povertà della maggioranza della popolazione?
Sull’argomento è interessante uno studio relativo all’Africa subsahariana: Honest Accounts (sostenuto da Global Justice Now) di cui riteniamo utile diffondere i risultati. Il Rapporto del 2017 analizza i flussi di denaro in entrata e in uscita relativi al 2015.

Come il mondo approfitta dell’Africa

Il dato complessivo dice che sono entrati in Africa subsahariana 162 miliardi (prestiti, rimesse, aiuti) e sono usciti 203 miliardi, con una perdita di 41 miliardi.

Tabella dati

Le cause del costante impoverimento sono molteplici:
Fondamentale è il fatto che lo sfruttamento delle risorse naturali sia in mano alle imprese straniere sia nel settore agricolo sia in quello minerario; anche quando esiste, la partecipazione locale è minoritaria (dal 5 al 20%). La fase manifatturiera avviene all’estero, dove quindi finisce buona parte del guadagno.
Accanto al prelievo legittimo, esiste un prelievo che deriva dal gioco della doppia fatturazione: l’impresa multinazionale emette una prima fattura verso una propria filiale, localizzata in un paradiso fiscale, con importi inferiori a quelli reali così da pagare pochi diritti di estrazione; la filiale emette una seconda fattura diretta al cliente finale con gli importi reali così il guadagno viene tassato con le aliquote basse del paradiso fiscale. Difficile stimare quanto frutti alle imprese questa doppia fatturazione: secondo la stima della Commissione ONU per l’Africa la cifra si aggirerebbe sui 68 miliardi.
Non manca poi un prelievo di risorse del tutto abusivo e illegale: taglio di foreste (17 miliardi), pesca (1,7 miliardi), animali e piante protette (10 miliardi).
Annoso è il problema del debito, i cui interessi gravano pesantemente sull’economia africana. La ristrutturazione del debito è tuttora oggetto di discussione: nel 2015 in contesto ONU 136 paesi si sono pronunciati a favore, ma si sono opposti USA, Regno unito, Germania, Giappone, Canada e Israele. Incrementare i prestiti genera ovviamente un aumento degli interessi dovuti.
Altro flusso in uscita è la somma che l’Africa versa per fronteggiare i cambiamenti climatici: in totale 36 miliardi per contrastare i cambiamenti e ridurre l’uso di energia fossile. Come si sa le cause antropiche dei cambiamenti sono largamente ascrivibili al processo di industrializzazione dell’Occidente, più che ai paesi non industrializzati del Sud del mondo. Fino a che punto tali paesi devono pagare per un fenomeno da cui hanno tratto scarsissimi vantaggi?
Infine bisogna ricordare che non tutti in Africa sono poveri. Le elités sono molto ricche, spesso corrotte, alleate dei vari soggetti che causano l’impoverimento. Una piccolissima minoranza accumula miliardi che deposita nei paradisi fiscali, sottraendo così ai concittadini somme ingenti di tasse non pagate; la stima per il 2015 è di 14 miliardi, sottratti a servizi sociali o investimenti produttivi.

Interessante sarebbe poi esaminare l’impatto del traffico di armi che alimenta le guerre presenti in Africa, spesso nel silenzio dei media.

Vogliamo cambiare?
Questo prelievo di ricchezza dall’Africa non è certo compensato dagli aiuti (20 miliardi), né dalle rimesse (31 miliardi) dei cittadini africani che lavorano all’estero, né dai doni privati (12 miliardi).
Sull’argomento aiuti vale la pena di riflettere. Tutti siamo convinti che i paesi ricchi stiano aiutando l’Africa, infatti l’aiuto ha la caratteristica del dono, pubblico o privato. Ma se pensiamo alla storia dell’Africa vediamo che è un continente depredato a vantaggio dell’Occidente, dalla tratta degli schiavi al prelievo di materie prime nel periodo coloniale, per arrivare allo sfruttamento odierno. Non sarebbe tempo di ripensare il concetto di aiuto?
L’Africa non ha bisogno del nostro aiuto, ma di un risarcimento equo del danno subito: devastazione del territorio e rovina dell’ambiente. Il risarcimento del danno non può essere l’arbitraria liberalità del dono, ma deve essere commisurato allo sfruttamento umano e ambientale perseguito sia da imprese di singoli Stati sia da organismi multinazionali. Sul passaggio dall’aiuto al risarcimento sarebbe urgente aprire un dibattito e una riflessione a livello internazionale, perché si tratta di un cambiamento radicale di paradigma.
Altro cambiamento necessario è l’abbandono delle politiche neoliberiste degli aggiustamenti strutturali e della globalizzazione, che non proteggono la formazione di un tessuto industriale in un paese che ne è privo, ma al contrario, privatizzando risorse (persino l’acqua!) e servizi favoriscono chi è più forte sul mercato globale. Nel settore agricolo le monocolture distruggono l’agricoltura locale e riducono alla fame i contadini, nel settore estrattivo il mancato reinvestimento in infrastrutture e manifatture locali impedisce la creazione di lavoro e nuova ricchezza per gli africani.
Infine c’è un nodo ancora più indecente: una larga parte dell’impoverimento del continente è imputabile, come si è visto, ai paradisi fiscali. Va ricordato che una serie di isole-paradiso fa capo alla Gran Bretagna e che Malta e il Lussemburgo sono paradisi fiscali all’interno della stessa Unione Europea.
La gigantesca evasione fiscale colpisce non solo i paesi africani, ma anche i nostri, tanto che la povertà relativa sta aumentando e le diseguaglianze sono sempre più marcate. E’ tempo che la società civile in Africa, in Europa e nel resto del mondo faccia pressione, a livello internazionale, perché con una legislazione adeguata si ponga fine a questo scandalo. Perché, dopo qualche cenno all’inizio della recente crisi, l’argomento è finito nel più assordante silenzio?

Come si vede solo con una rivoluzione culturale e politica si potranno davvero aiutare i disperati che vogliono raggiungere l’Europa a rischio della vita.

(*) esclusi i paesi del Nord Africa

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