Rohingya e il silenzio della Signora

Eraldo Rollando
09-09-2017
Che fine farà la Stato Islamico?
Con la sua sconfitta in Iraq e Siria sparirà dalla scena mondiale come idea di territorio fisico su cui esercitare un’autorità di governo (questa è stata la sua strategia rivoluzionaria rispetto a quella di al-Qaeda), e si adeguerà alla “politica” del rivale? Si “limiterà” a terrorizzare i cristiani d’occidente, e a predicare un ritorno alla purezza dell’Islam sunnita, combattendo contemporaneamente i “fratelli” sciiti? O si rivolgerà ad altre realtà, per ripartire con l’idea di un Califfato più grande, un Califfato mondiale?
Molti autorevoli osservatori, da qualche tempo, rivolgono la loro analisi verso questa alternativa: lo sguardo verso oriente, superando le, per così dire, ristrette aree del medio oriente (Iran, Iraq, Siria, Liba, Afghanistan, ecc…) per raggiungere popolazioni islamiche non arabe.
Emanuele Giordana, con il contributo di altri autorevoli colleghi, nel saggio “A oriente del Califfo” (Editore Rosenberg & Sellier-2017) suggerisce questa ipotesi avvertendo, nello stesso tempo, che se pur nulla è dato per certo è saggio avviare un’analisi che potrebbe portarci nel campo del possibile.
La domanda sul perché sia sorto uno stato islamico, in quei territori conquistati, è già stata posta, senza che una analisi e una risposta da parte di quei governanti e dei loro
supporters (USA, Europa e Russia) sia pervenuta; pressati, forse, da situazioni contingenti.
Attentati in paesi non arabi si sono già verificati e continuano a verificarsi.
Nei regimi dei paesi del medio oriente gli errori commessi dai loro governanti, barbarie, ingiustizia, corruzione e violazione continua dei diritti umani, non sono certo stati gli unici, ma sicuramente hanno avuto una parte notevole nell’istallazione dello jiadismo e la radicazione dello Stato Islamico.

Perché non dovrebbe succedere nella ex Birmania, oggi Myanmar?
In quel paese di circa 52 milioni di abitanti a maggioranza buddista, una minoranza musulmana, circa un milione di abitanti, è stata dichiarata immigrata illegale e, vessata oltre ogni limite, costretta a fuggire da una guerra non dichiarata.
Sono i Rohingya, costretti ad allontanarsi dalla regione di Rakhine per rifugiarsi nel confinante Bangladesh.

Myanmar e Rakhine

Per reagire a quella che l’Onu ha definito “una pulizia etnica”, un gruppo di guerriglieri ha dato origine all’Arakan Rohingya Salvation Army. Chi fornisce loro le armi? Il dubbio di un supporto Jiadista medio orientale è legittimo, anche se non è noto alcun legame con il cosiddetto Stato Islamico . Ci sono, però, tutte le condizioni ( barbarie, ingiustizia, e violazione continua dei diritti umani) per attendersi l’arrivo del Califfato.

Chi sono i Rohingya.
Circa un milione di persone di fede musulmana, che parla un dialetto utilizzato anche nel sud est del Bangladesh, da lungo tempo abita nella zona del Rakhine; una lunga lingua di territorio che si affaccia sul Golfo del Bengala (Oceano Indiano), situato nella parte ovest del Myanmar, e che confina a nord ovest con il Bangadesh. Nel 1982 è stata tolta ai Rohingya la cittadinanza , in base ad una legge varata quell’anno, sotto la dittatura militare e tuttora vigente, che prevede la possibilità di ottenere la cittadinanza birmana solo a quei gruppi etnici presenti nel paese prima del 1823 (epoca della colonizzazione inglese). Non essendo più cittadini dello stato è negato loro di andare a scuola, curarsi negli ospedali del paese, possedere una casa o un terreno e privati della libertà di associazione e di spostamento.
I Rohyngya sostengono di essere presenti nel paese prima di quell’anno e di essere i discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Myanmar via mare durante il medioevo ; il governo sostiene il contrario, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823 (per i birmani, ne sarebbe la spia anche il loro dialetto).
Nei secoli passati l’attuale area del Rakhine è esistita come regno indipendente del Arakan; le invasioni birmane, avvenute tra il 1784 e il 1826, e il successivo periodo di guerre contro l’impero coloniale inglese (che hanno portato all’indipendenza della Birmania nel 1948) hanno sconvolto gli equilibri politici e sociali del Arakan. Già dal 1948 i Rohingya sono entrati nel mirino del neonato governo birmano come elementi estranei alla cultura buddista
Con la dittatura militare, nel 1982, vennero ritirate tutte le loro Carte di identità e sostituite con “Carte di identità temporanee”. Nel 2016 anche queste Carte vennero ritirate riducendo, di fatto, queste persone allo stato di apolidi e quindi da allontanare dal paese.
A questo si aggiunge anche il fatto che tra mussulmani e buddisti nell’area non scorre buon sangue: nei decenni si sono sviluppate forti tensioni etniche e vere e proprie cacce all’uomo.
Nell’ottobre 2016, in un agguato furono uccisi nove poliziotti; ciò innescò la repressione governativa che ebbe come risultato la distruzione di un migliaio di case, uccisioni e un primo esodo forzato di migliaia di persone. Attentati contro istallazioni e presidi militari si sono susseguiti nel tempo. Di recente, fonti dell’Agenzia France Press riferiscono che Il 24 agosto 2017 i ribelli hanno sferrato attacchi su almeno trenta presidi militari, uccidendo non meno di 12 soldati. il 26 agosto 2017 l’esercito, in risposta agli attacchi, ha sparato con mitragliatrici sui combattenti Rohingya e sui civili in fuga dalla regione di Rakhine; secondo le guardie confinarie del Bangladesh sono state colpite anche donne e bambini.
Il 29 agosto l’Alto commissario delle Nazioni Unite ha denunciato la situazione, dichiarando che era in atto una “pulizia etnica” dopo “decenni di violazioni persistenti e sistematiche dei diritti dell’uomo”.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) segnala che, a seguito di questi fatti, non meno di 18 mila persone sono riuscite ad attraversare la frontiera con il Bangladesh; di questi, circa 4 mila sono rimasti accampati nella zona di confine in ripari di fortuna.
Stime dell’ UNHCR, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, parlano di circa 58 mila persone riparate in Bangladesh da quando sono iniziati gli scontri, ma il “loro numero è destinato a crescere” ha aggiunto il portavoce Vivian Tan.
Le notizie, però, rimangono sempre molto scarse perché né giornalisti stranieri né Onlus indipendenti sono ammessi nelle zone in cui sono divampati i combattimenti. Questo dà alle forze governative la possibilità di ribaltare la verità, come attribuire incendi di interi villaggi ai ribelli.
Nel sito di Euronews (http://it.euronews.com/2017/08/30/myanmar-l-esodo-infinito-dei-rohingya) Simona Volta riporta una testimonianza: “In Myanmar – spiega una donna – ci stanno uccidendo, bruciano le nostre case, uccidono i musulmani ed è per questo che dobbiamo venire qua. Ci circondano con elicotteri, saccheggiano i nostri beni, danno la caccia e uccidono i nostri uomini. Hanno ucciso molte persone. È per questo che siamo venuti qui (in Bangladesh, ndr)”.
Nel tentativo di riparare nei paesi vicini, molti scelgono la via del mare dirigendosi verso i porti di Malesia, Indonesia e Thailandia dai quali vengono sistematicamente respinti.
Dall’inizio degli anni 70 del XX secolo in migliaia si sono rifugiati in Bangladesh; secondo l’ UNHCR solo 32 mila hanno lo status ufficiale di rifugiati politici e vivono in due campi gestiti dal governo. Ma circa 200 mila sono “undocumented”, senza documenti; costoro vengono assistiti, in qualche modo, da organizzazioni umanitarie riconosciute dal Bangladesh, tra le quali la più assidua è l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM).
Il Bangladesh, però, ha dichiarato ripetutamente di non essere più in condizione di ricevere altri profughi. Dove andranno?
I Rohingya, per fare sentire la loro voce, hanno istituito associazioni e strutture sia in Myanmar che all’estero, anche attraverso una stazione televisiva autogestita.

San Suu Kyi, “The Lady”.

Aung San Suu Kyi

E’ conosciuta con questo soprannome: “The Lady” (La Signora); attiva per molti anni nella difesa dei diritti umani nel suo paese, oppresso dalla dittatura militare, dal 6 aprile 2016 condivide il governo con i militari; quelli stessi che ha combattuto e dai quali è stata ripetutamente incarcerata.
Premio Nobel per la pace nel 1991 (ritirato nel 2012), Aung San Suu Kyi è attualmente Consigliere di Stato della Birmania, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente.
Una serie di incarichi di livello molto alto; ma tace.
Sembra non vedere ciò che accade nel suo paese e sembra rinnegare i trascorsi impegni, per i quali ha ricevuto riconoscimenti internazionali, tra i quali il premio Nobel.
Pare, però, che veda bene quello che succede, se è vero che ultimamente ha criticato gli attentati dell’Arakan Rohingya Salvation Army, accusando i ribelli di avere assaltato 30 presidi di polizia e una caserma dell’esercito, dimenticando nello stesso tempo di denunciare gli abusi delle forze di sicurezza sulla popolazione.
Nell’aprile 2017, in una intervista alla BBC, ha negato che sia in atto in Nyanmar una pulizia etnica: “è un’espressione troppo forte”, ha dichiarato; evidentemente non vuole guardare alle evidenze che mostrano il contrario (fonte Il Post.it)
La sua posizione viene fortemente criticata in occidente, e l’accusa principale che le viene rivolta è di non prendere posizione.
La Signora è spinta da calcolo politico o dalla impossibilità di controllare i militari?
Arriverà il Califfato? Auguriamoci di no.

Malala Yousafzai

Malala Yousafzai

Pakistana e mussulmana, ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2014 a 17 anni, il più giovane premio Nobel della storia.
Oggi ne ha 20 e il 3 settembre 2017 ha preso posizione contro il silenzio della San Suu Kyi con un twitter che ha fatto rapidamente il giro del mondo:
“Over the last several years, I have repeatedly condemned this tragic and shameful treatment. I am still waiting for my fellow Nobel Laureate Aung San Suu Kyi to do the same. The world is waiting and the Rohingya Muslims are waiting.”
(Negli ultimi anni io ho più volte condannato questo tragico e vergognoso trattamento. Sto ancora aspettando che la mia collega di Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso. Il mondo sta aspettando, i mussulmani Rohingyia stanno aspettando)
Indubbiamente una bacchettata molto forte, portata da una ragazza di 20 anni a una politica “navigata” di 72. La Nostra reagirà? In che modo? Quando? Con quali conseguenze?
Improvvisamente anche i nostri media si sono svegliati: ne hanno dato notizia martedì 5 settembre i maggiori quotidiani nazionali e le varie reti televisive pubbliche e private.
La speranza è che l’opinione pubblica internazionale prenda finalmente coscienza di questo dramma e spinga i propri governi ad intervenire per fermare quello che lo stesso Onu ha definito un genocidio.

Mondo