Beni comuni: un po’ di storia – Puntata 1

Gabriella Carlon
13-12-2019
Nel panorama degli studi per la transizione verso forme di economia alternative al sistema del capitalismo neoliberista occupa un posto non trascurabile la ricerca sui Beni comuni: quale ne sia la definizione, quale la classificazione, quale la posizione giuridica. Di tale ampio dibattito cercherò di sintetizzare le linee fondamentali.
Il concetto di Beni comuni si differenzia nettamente da quello di Bene comune.
Sul Bene comune si è molto riflettuto, dall’antichità ai giorni nostri, per determinare, tra l’etica e la politica, quale debba essere, in linea teorica, l’attività dello Stato per il maggior benessere dei suoi cittadini.
I Beni comuni sono invece risorse concrete. Il sistema giuridico romano enumera come res omnium l’aria, l’acqua dei fiumi, il mare e le sue coste. Una serie di usi civici riserva, nel corso dei secoli, il godimento di alcune risorse alla comunità sottraendolo alla proprietà individuale; d’altro lato la consuetudine stabilisce l’uso regolamentato di alcuni beni per concessione del proprietario (diritto di pascolo, di raccolta frutti, di caccia ecc.). La pratica dell’uso collettivo di una risorsa sopravvive in Europa limitatamente, mentre è molto più estesa in alcuni paesi del Sud del mondo.
Con le recinzioni iniziate in Inghilterra nel XVI secolo, premessa della rivoluzione industriale, le terre comuni (commons) furono via via trasformate in proprietà privata con apposite leggi, onde poter incrementare l’allevamento delle pecore che fornivano la lana alla nascente industria tessile. Le popolazioni rurali, prive della loro fonte di sostentamento, subirono conseguenze disastrose. Questo cambiamento diede luogo a un intenso dibattito intorno al diritto di proprietà e alla natura dei beni comuni: non poteva più essere la concessione del proprietario il fondamento del possibile godimento di un bene; cominciò a delinearsi invece il concetto di un diritto individuale, insito nella natura stessa, all’uso di beni il cui esercizio non può essere negato per la sussistenza e/o per il benessere degli umani.
Parallelamente alla formulazione, sempre più allargata, dei diritti umani si è estesa anche la categoria dei beni necessari al loro soddisfacimento, dai beni materiali essenziali (es. aria, acqua) all’istruzione, salute, comunicazioni, energia e così via. Come cambiano nel tempo e nello spazio i diritti umani riconosciuti, e in particolare quelli sociali, aumentano i beni da considerarsi comuni. Su questo terreno le opinioni sono molto differenti e il dibattito è tuttora molto vivace.
Tra ‘800 e ‘900 si è pensato che beni e servizi destinati a un uso collettivo dovessero essere di proprietà dello Stato (beni pubblici) che diventava così garante dell’accesso universale ai beni ritenuti essenziali. In seguito, con la svolta neoliberista degli anni 70 del ‘900, si procedette invece a una privatizzazione spinta di risorse e servizi.
Ma ormai è chiaro che il mercato, non essendo in grado di autoregolarsi, produce danni sociali e ambientali. Non tutto può essere ridotto a merce: l’universalità dei diritti contrasta con la fruizione dei beni legata al denaro.
Nel 1968 Garret Hardin (*)parla di tragedia dei beni comuni. Se nessuno può essere escluso dal loro uso, c’è il rischio che il bene stesso venga distrutto, soprattutto in una situazione di incremento demografico globale come l’attuale. Hardin ritiene che la soluzione stia in un intervento dello Stato che ne regolamenti l’uso in modo coercitivo. Elinor Ostrom, Nobel per l’economia 2009, vede invece possibile (Governing the commons, 1990) un’autoregolazione da parte della comunità che fruisce di un determinato bene, quindi prospetta una molteplicità di soluzioni in funzione della sostenibilità, scartando sia la gestione privata sia quella statale. I beni comuni sarebbero qualcosa d’intermedio tra i beni privati e i beni pubblici.
Ciò che determina l’appartenenza alla categoria dei Beni comuni non è la sostanza del bene ma la sua fruizione; in base a questa si definiscono le seguenti caratteristiche:
• Devono essere fruibili da parte di tutti.
• Non sono commerciabili, cioè non possono essere messi sul mercato.
• I profitti eventuali devono essere reinvestiti nella gestione del bene stesso.
A livello mondiale si è presentata al Forum sociale delle alternative del 2012 una bozza dei Diritti universali sui beni comuni, che è stata oggetto di discussione ed elaborazione anche nei Forum successivi. Tale Dichiarazione dovrebbe affiancare la Dichiarazione universale dei diritti umani, ma è difficile pervenire a una classificazione dei Beni comuni soddisfacente per tutti.
In Italia nel 2007 una Commissione presieduta da Stefano Rodotà ha elaborato un progetto di legge sui Beni comuni. In quel testo sono definiti come “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”, anche in relazione alle generazioni future. Il testo introduce la categoria giuridica dei Beni comuni, accanto ai Beni pubblici e ai Beni privati. La loro proprietà può essere pubblica o privata, ma la loro gestione deve garantire la fruizione collettiva. Il progetto di legge (clicca) d’iniziativa popolare è stato presentato in Parlamento anche di recente (dicembre 2018), ma non è mai stato discusso.

(1, continua)
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Nota:
(*) Garrett James Hardin (Dallas 1915 – Santa Barbara 2003) è stato un ecologo statunitense, noto soprattutto per il suo saggio del 1968 sulla tragedia dei beni comuni.

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