Eraldo Rollando
8-9-2018
Nell’Iraq del nord, area nota come Regione autonoma del Kurdistan iracheno,
vive circa il 15/20 percento del popolo curdo, più o meno 6milioni di persone; la rimanente parte (si stima in 25/30milioni) è distribuita negli Stati confinati Turchia, Siria, Iran e Armenia a formare il Kurdistan, nazione di popolo senza uno Stato indipendente.
I curdi, originariamente di religione zoroastriana (dal nome del suo fondatore Zarathuštra – in italiano Zoroastro – collocato dagli studiosi tra l’XI e il VII secolo a.c.), dal 600 d.c. sono di religione musulmana, in maggioranza sunniti, ma anche sciiti-aleviti (da non confondere con gli sciiti-Alawiti della Siria), sufi e di altre confessioni compresa la cristiana.
Una minoranza di etnia curda, ai più sconosciuta che parla il kurmanji, una sorta di dialetto curdo, stimata in circa 650mila persone (altri 150mila si trovano sparsi tra Germania, Russia, Armenia e Georgia), è insediata da secoli all’interno della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, nella regione del monte Sinjar a nord-ovest di Mosul (città nota alla storia con il nome di Ninive): è il popolo degli Yazidi, uno fra i più antichi della Mesopotamia; una setta che pratica una religione nata e modificata nel tempo con un incrocio di islam, cristianesimo e zoroastrismo.
Come per altre religioni minoritarie che vivono nell’area – i Drusi che vivono in Libano e gli Alawiti siriani di Bashar el Assad – hanno una struttura sociale molto compatta e chiusa, tale che non è possibile convertirsi allo yazidismo dall’esterno: solo chi è nato in questa fede può appartenervi.
Secondo alcune tesi lo yadizismo sarebbe presente nel Medio Oriente addirittura da più di 4000 anni; ciò farebbe pensare ad una religione antecedente allo zoroastrismo, dal quale, nei secoli, avrebbe inglobato le caratteristiche principali. Si tratta di una forma di sincretismo religioso in cui si sono fusi sistemi di pensiero e dottrine originariamente divergenti tra di loro; e’ fuori di dubbio, comunque, che lo zoroastrismo ancora oggi abbia una parte preminente nella fede yazidica. Fu solo in epoca islamica che gli Yazidi acquisirono un’identità etnica e religiosa. Intorno al XII secolo prese corpo una riforma della religione ad opera del teologo e mistico sufi Adi Ibn Mustafa il quale vi apportò, infatti, alcuni elementi islamici; questa revisione, tuttora operante, richiama l’idea che in epoca antecedente il culto fosse molto diverso dall’attuale.
A Lalish, una località a nord-est di Mosul, la tomba del Maestro, composta in un santuario, continua a essere meta di pellegrinaggi sino dal 1162 a.c., data della sua morte. “È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio”, scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani
Questo popolo crede in Yasdan, un unico Dio che si mette in comunicazione con i credenti attraverso sette angeli creatori;
Makel Ta’us, un angelo dalle sembianze di pavone, è la figura centrale di questa religione, un angelo ribelle che ha espiato la sua colpa con un pianto durato 7000 anni e che con le sue lacrime ha spento le fiamme dell’inferno: questa è la credenza, ma anche la fonte dei guai per quel popolo.
Per la loro fede, per secoli, sono stati oggetti di campagne d’odio. Considerati eretici e adoratori del diavolo da parte dei mussulmani più ortodossi, in particolare di fede sunnita, hanno affrontato il rischio di essere ripetutamente sterminati. Come detto sopra i sunniti, infatti, li definiscono a torto “adoratori del diavolo”. Anche nell’Islam sunnita, esiste la figura di un angelo ribelle e maledetto da Dio: Iblis o Shaitan (conosciuto da noi come Lucifero o Satana). Questo angelo aveva disubbidito all’ordine divino di prostrarsi e adorare l’uomo, nella figura di Adamo, al quale Dio aveva sottoposto tutti gli Angeli dopo la sua creazione. Shaitan/Iblis viene ritenuto dai sunniti come colui che può corrompere l’umanità e portarla a creare altre divinità da affiancare all’unico dio: Allah.
A partire dal XV secolo, i vicini musulmani turchi e arabi cominciarono a equiparare Melek Ta’us, l’Angelo Pavone yazida ,a Iblis/Shaitan il Tentatore sunnita. Il paragone ha creato un tremendo equivoco che si perpetua da secoli tra persecuzioni e tentativi di sterminio. E vennero i giorni dell’intolleranza; l’intolleranza, quella “mala erba” che da Caino e Abele si è radicata nell’animo dell’Uomo, e là rimane a fare fiorire i campi guasti dell’Umanità.
A fare data dal secolo XIX si hanno notizie più certe sulle persecuzione subite.
Nel 1892 furono gli ottomani a fare la loro parte: in quell’anno le truppe ottomane penetrarono nella valle di Lalish passando a fil di spada migliaia di abitanti e distruggendo il mausoleo di Adi Ibn Mustafa, successivamente ricostruito. Tentativi di assoggettamento furono attuati dai turchi negli anni successivi;
nel 1904 il sacro tempio di Lalish venne trasformato in una moschea dall’allora governatore iracheno di Mosul.
In tutta la seconda metà del XX secolo il governo iracheno, nelle sue varie forme istituzionali, riprese a perseguitare la Comunità degli Yazidi: nel 1957 il re Fayṣal II iniziò la sua campagna di persecuzione, seguita nel 1969 e successivamente nel 1975 dal primo presidente della neonata Repubblica Irachena Ahmed Hasan al-Bakr.
Nello stesso periodo gli Yazidi residenti nel Kurdistan turco vennero sottoposti ad una politica discriminatoria da parte delle autorità governative: a partire dagli anni ottanta molti Yazidi turchi iniziarono a emigrare in Germania.
Con la caduta di Saddam Hussein, nel vuoto di potere conseguente all’invasione americana, la sicurezza di questa popolazione divenne, se possibile immaginarlo, ancora più precaria. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena, fu drammatico: almeno 500 morti e 1.500 feriti; quasi un anticipo di ciò che sarebbe accaduto sette anni dopo: parliamo dell’invasione da parte dell’ISIS sunnita della piana di Mosul nel 2014. Durante questa operazione circa 5000 Yazidi furono uccisi; 6000, in prevalenza bambini e donne, furono tratti in schiavitù sessuale; 50000 riuscirono a riparare a nord sulle montagne del Sinjar e, a mala pena, salvate dalla fame dai lanci umanitari dell’aviazione USA e britannica.
L’ONU, l’UE e molte altre organizzazioni internazionali definirono questi fatti come il genocidio di una piccola nazione.
Questo è stato solo l’ultimo dei 72 genocidi che gli Yazidi, nel corso della loro storia, raccontano di avere subito; sembra un’esagerazione, ma già tra il XII e il XV secolo questa comunità si trovò ad affrontare persecuzioni da parte di chi non tollerava la “strana” religione e la loro chiusura agli altri.
Uno dei maggiori pericoli che si trova oggi ad affrontare il popolo yazida è la diaspora, la sua dispersione in territori lontani. La considerevole riduzione e dispersione dei suoi membri e la mancanza di centri di potere religiosi, economici e politici fanno pensare ad una triste e rapida scomparsa.
Il paese europeo che più ha aperto le porte a questa comunità in fuga è senza dubbio la Germania che ha accolto circa 100mila membri, avviando programmi concreti di riabilitazione psicologica e di inserimento nella società locale. Il Canada sembra avere avviato programmi sul modello tedesco e, da ultimo, non è da dimenticare l’intervento in Armenia: in questo paese, dove un consistente numero di profughi sono stati accolti e integrati nella società che li accoglie, pare sia in costruzione l’unico tempio yazida.
Dopo la sconfitta dell’ISIS, il popolo curdo nella sua totalità è ritornato nel mirino dei governi centrali che da tempo contestano la sua ambizione a formare un’unica Nazione indipendente: in prima fila Turchia, Iraq e Iran.
La piccola comunità degli Yazidi corre il pericolo di essere coinvolta nuovamente in queste vicende.
Fuor di dubbio, se le Nazioni del mondo, soprattutto del mondo occidentale, non cessano di guardare ognuna al proprio ombelico, distratte come sono dai propri problemi interni, e non prenderanno a cuore le sorti di questa “strana” comunità, la stessa, con tutta probabilità, non avrà più la possibilità di ritornare a vivere in pace nel proprio territorio di origine.