L’impatto dell’intelligenza artificiale sotto la lente di Confartigianato

Sono 8,4 milioni i lavoratori italiani più esposti al rischio di perdere il lavoro con i rivoluzionari cambiamenti previsti in molti settori nei prossimi anni. Soprattutto nei paesi più sviluppati.

 

Adriana F.
21-10-2023
Un rapporto (1) di Confartigianato del 24 agosto prevede che in Italia il 36,2% del totale degli occupati subirà l’impatto delle profonde trasformazioni tecnologiche e dei processi di automazione, oggi in fase di rapido sviluppo. Le professioni più esposte al rischio sono quelle più qualificate e a contenuto intellettuale e amministrativo: tecnici dell’informazione e della comunicazione, dirigenti amministrativi e commerciali delle aziende private e pubbliche amministrazione, specialisti in scienze e in ingegneria. Minore il rischio per le attività lavorative con una componente manuale non riconducibile a precisi standard e quindi non riducibili ad algoritmi.
Più in dettaglio, lo studio calcola che l’espansione dell’intelligenza artificiale (AI) insidierà il 25,4% dei lavoratori in ingresso nelle aziende nel 2022, pari 1,3 milioni di persone. Per le piccole imprese (fino 49 addetti) la quota è del 22,2%, pari a 729.000 persone.
A livello territoriale, il più alto numero di personale in bilico si registra nel Centro-Nord, con la Lombardia in testa (35,2% degli occupati assunti nel 2022 saranno i più esposti all’impatto), seguita da Lazio (32%), Piemonte e Valle d’Aosta (27%), Campania (25,3%), Emilia Romagna (23,8%) e Liguria (23,5%).
Nel complesso la percentuale di lavoratori italiani che potrebbero essere espulsi o marginalizzati sarà comunque inferiore di oltre 3 punti percentuali rispetto al 39,5% della media europea e riguarderà soprattutto i soggetti più giovani e quelli già maturi ma ancora lontani dall’età pensionabile. Molti di questi ultimi, peraltro, stanno già subendo le conseguenze della modernizzazione, perché negli ultimi anni diverse imprese hanno iniziato a sfruttare l’intelligenza artificiale per ottimizzare le proprie attività: quasi il 7% delle  piccole aziende italiane utilizza robot,  il 5% delle Piccole e medie imprese usa sistemi di AI, e il 13% dichiara di avere in programma futuri investimenti nella stessa direzione.
Peggio di noi, in base alle proiezioni, si troveranno la Germania e la Francia, rispettivamente con il 43% e 41,4% di lavoratori a rischio. Valori ancora più alti riguardano il Lussemburgo, con addirittura il 59,4%, cui seguono il Belgio (48,8%) e la Svezia (48%).

Opportunità? Sì, ma per chi?
Sul tema c’è un’ampia serie di articoli e analisi che presentano temi, opinioni e proiezioni su cosa ci si deve attendere da un futuro che sembra quasi dietro l’angolo.
Molto fiducioso nei vantaggi dei prossimi cambiamenti  sui vantaggi dei futuri cambiamenti è, tra gli altri, Jamie Dimon  (clicca per leggere),  presidente e CEO di JPMorgan Chase,  multinazionale statunitense di servizi finanziari. Il 3 ottobre scorso egli ha dichiarato che l’intelligenza artificiale viene già usata da migliaia di impiegati della sua banca e che la sua ulteriore diffusione porterà a migliorare la qualità della vita per la prossima generazione, per la quale si prospetta una settimana lavorativa di soli tre giorni e mezzo. Ma è lo stesso Dimon ad ammettere che alcuni lavori potrebbero essere completamente cancellati. Anzi, “cannibalizzati”. E non esclude nemmeno che la AI possa essere utilizzata da “persone malvagie”.

Pessimista è invece il parere di chi prevede che saranno le donne lavoratrici a pagare il prezzo più alto. Se ne preoccupa, in un articolo apparso su Wired , (clicca per leggere) Chiara Crescenzi basandosi su un recente rapporto  del McKinsey Global Institute. Nel documento si legge che entro il 2030 «fino al 30% delle ore attualmente lavorate nell’economia statunitense potrebbero essere automatizzate». Tradotto in numeri, nei prossimi sette anni almeno 12 milioni di lavoratori dovranno cambiare professione a causa della modernizzazione dei settori in cui sono occupati. Una previsione pesantissima e, soprattutto, aumentata del 25% rispetto a quella ipotizzata dallo stesso istituto nel 2022. In tale scenario, Crescenzi sottolinea il fatto che a perdere l’occupazione sarà chi lavora in attività di supporto all’ufficio, servizio clienti e servizi di ristorazione, ovvero «in quei settori in cui le donne sono impiegate in una percentuale maggiore e con una retribuzione più bassa rispetto ai colleghi uomini». E non solo: a dover cercare una nuova occupazione saranno anche i lavoratori neri e ispanici, i soggetti senza titolo di studi universitario, i giovanissimi e gli anziani. Sul versante opposto, le migliori opportunità riguarderanno gli specialisti in discipline scientifiche, i creativi e gli esperti economici e legali: tutti settori statisticamente dominati dagli uomini.

Cauta, ma non certo ottimista, è anche l’opinione di Luca Foresti, che affronta il tema in diversi articoli su Wired (clicca per leggere). Partendo dalla premessa che oggi è impossibile prevedere in modo credibile cosa accadrà nel lungo periodo, egli invita a ragionare sul medio termine, consapevole che entro pochi anni ci saranno considerevoli impatti sociali, politici e, in generale, sulla vita delle persone. Impatti che andranno governati. Osserva, infatti, che questi cambiamenti non saranno simili a quelli portati dalle grandi scoperte tecnologiche del passato, che hanno rivoluzionato la produzione di beni e servizi, ma in seguito hanno riassorbito parte della manodopera rimasta senza lavoro, impiegandola nelle fabbriche. «Certamente – afferma – ci saranno nuovi lavori che oggi facciamo fatica a immaginare (…) Ma possiamo dire da subito che essendo lavori tipici dell’information technology, i numeri di lavoratori, seppure molto ben pagati, saranno ridotti rispetto alla forza lavoro complessiva». L’impatto sarà molto più destabilizzante.  Si avrà un cospicuo aumento di produttività in tutte le attività ripetitive e traducibili in algoritmi, che potranno a breve essere svolte in modo più rapido, efficiente e di ottima qualità da un sistema di intelligenza artificiale autonomo o affiancato da un operatore umano.
In questa prospettiva, i lavori di ricerca saranno quelli più richiesti e più remunerativi. Dunque non solo si teme di doverci confrontare con una crisi occupazionale e salariale nel breve periodo, soprattutto nei paesi sviluppati, ma anche di arrivare a una situazione quasi paradossale: da un lato ci saranno posti di lavoro molto ben retribuiti ma non occupati per mancanza di soggetti  specializzati nei  settori tecnologici più avanzati, dall’altro aumenteranno enormemente i disoccupati la cui prestazione sarà svolta dall’intelligenza artificiale. Aumenteranno perciò le disuguaglianze tra chi è in grado di fare ricerca e chi non lo è.
Questo timore, detto tra parentesi, è condiviso dagli economisti statunitensi Daron Acemoglu e Samuel Johnson, autori del saggio Power and Progress, recensito da Sebastiano Maffettone il 27 agosto sull’inserto del Sole 24 Ore. I due autori affermano che il progresso, inteso correttamente come miglioramento della condizione umana, non deriva dall’innovazione tecnologica in sé e per sé. “Anzi! La storia dell’umanità dimostra, semmai (e in particolare modo, la rivoluzione industriale), che il miglioramento della condizione umana ha sempre fatto seguito a rivendicazioni nei confronti delle élite in materia di condizioni del lavoro e tecnologia. In altri termini, a scelte politiche“. Da qui la necessità di una “resistenza al tecno-ottimismo incontrollato”.
Tornando alle parole di Foresti, a suo parere oggi possiamo solo ragionare su un periodo di pochi anni, perché è molto difficile immaginare quello che accadrà in seguito, con la messa a punto della prima forma di Intelligenza Artificiale Generale (AGI), di cui già si parla. Questa, infatti,  avrà almeno l’intelligenza di un essere umano, saprà evolversi rapidissimamente rispetto agli esseri umani in carne e ossa, e lavorerà 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, utilizzando diversi sistemi di calcolo decisamente più complessi e veloci dei nostri. Lo scenario, allora, sarà un mondo completamente diverso, Di conseguenza, oggi «non siamo capaci di immaginare quale sarà il ruolo esatto degli esseri umani: dove ci collochiamo esattamente? Tra nobili che non lavorano, con Agi al nostro servizio, oppure con Agi che ci vedono come esseri inferiori inutili da eliminare?».

Tornando al Rapporto da cui eravamo partiti, uno spiraglio di ottimismo si legge nelle parole di Marco Granelli, Presidente di Confartigianato: «L’intelligenza artificiale è un mezzo, non è il fine. Non va temuta, ma va governata dall’intelligenza artigiana per farne uno strumento capace di esaltare la creatività e le competenze, inimitabili, dei nostri imprenditori. Non c’è robot o algoritmo che possano copiare il sapere artigiano e simulare l’anima” dei prodotti e dei servizi belli e ben fatti che rendono unico nel mondo il made in Italy».
Sarà vero? Al momento non possiamo saperlo, ma fa piacere che qualcuno prospetti nuove forme di assestamento e una continuità non traumatica per il mondo del lavoro, come accaduto in epoche passate.

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Nota

(1)      https://www.confartigianato.it/2023/08/lavoro-impatto-intelligenza-artificiale-su-84-mln-lavoratori-granelli-ia-va-guidata-da-intelligenza-artigiana/
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