Referendum: scarso l’afflusso alle urne

Gabriella Carlon
3-07-2025

A giudicare dai risultati del Referendum sembrerebbe che a una larga maggioranza degli italiani piaccia un lavoro precario e sempre più privo di tutele legali. Persino provvedimenti che cerchino di ridurre il numero di morti sul lavoro, una strage quotidiana, sembrano non godere di largo consenso: si preferisce lasciare le cose come stanno. Per non parlare della cittadinanza negata a chi lavora, paga le tasse, assolve ai doveri fondamentali del cittadino ma è tenuto lontano dal godimento della totalità dei diritti: meglio lasciarlo in uno stato di inferiorità.
Eppure, a parte la questione della cittadinanza su cui affiorano, nella nostra società, segnali espliciti di xenofobia, ampiamente alimentati anche a livello europeo, sulle altre questioni relative al lavoro sembra invece essere diffuso un grave malcontento: i giovani non sono affatto soddisfatti della loro precarietà ma se ne lamentano. Secondo l’OCSE “i lavori non standard (autonomi, part time e temporanei) sono più di un terzo del totale: in Italia, i gig workers -uomini e donne che vivono di lavoretti – nel 65 per cento dei casi hanno un compenso mensile di 50 euro, nel 14 per cento incassano tra 100 e 500 euro, e solo il 2 per cento di loro arriva a 1000 euro al mese”. (1)

Indubbiamente una parte degli italiani crede, in buona o mala fede, nel neoliberismo, che considera il lavoro una merce, soggetta alle leggi di mercato, oggi sottilmente mascherate dallo schermo della flessibilità. Ma allora perché chi vive del proprio lavoro ed è insoddisfatto delle condizioni a cui è costretto non si è recato alle urne in massa? Anche delle morti sul lavoro l’opinione pubblica sembra preoccupata: come si spiega un comportamento così contraddittorio?

Non abbiamo né gli strumenti né la pretesa di dare risposte statisticamente fondate; tuttavia si può ipotizzare qualche risposta sulla base del clima che si respira quotidianamente nel contatto con le persone.
Mi sembra risibile la considerazione, sostenuta anche all’interno del PD, che i quesiti referendari guardavano al passato e non al futuro, come se la precarietà del lavoro, che toglie forza contrattuale ai lavoratori e pertanto implica bassi salari, non fosse un problema attuale. Lo smantellamento dei diritti dei lavoratori di fatto ha tolto al lavoro quella dignità che la Costituzione gli attribuisce. Sarebbe ora di smetterla col mito della modernità, altrimenti cosa dovremmo dire di libertà, uguaglianza e fraternità, principi vecchi ormai di qualche secolo?

Penso piuttosto che nella mentalità comune sia profondamente penetrata la cultura del capitalismo, centrata sull’individualismo estremo (come se la società non esistesse), sul consumismo e sulla disuguaglianza come fatto naturale e ineliminabile. Secondo tale ideologia la competizione è la legge fondamentale della convivenza umana, quindi ciascuno deve cercare di cavarsela da sé, con le sue capacità e i suoi meriti. Non serve, in tale ottica, una legislazione a tutela dei diritti universali, anzi, sarebbe un intralcio al libero dispiegarsi delle forze in campo. Non si concepisce uno spazio e un ruolo per la collettività e per le organizzazioni che la rappresentano e che potrebbero tutelare i diritti, al contrario si pensa che non serva associarsi e nemmeno prendersi cura dei diritti di chi sta peggio.
Tale contesto culturale genera passività e rassegnazione, e soprattutto sfiducia nella capacità della politica di modificare le condizioni di vita e di lavoro. Così trionfa non la figura del cittadino, critico e partecipativo, ma del consumatore, cioè di un individuo completamente succube della pubblicità, convinto che il senso della vita stia nel possedere cose, spesso inutili e superflue, ma proposte in modo allettante dagli spot che dilagano in tv e nei siti internet. Tempo ed energie devono essere immolati per ottenere il denaro necessario per accedere al mercato: il lavoro non è una forma di realizzazione di sé, ma un mezzo per guadagnare, magari in nero, perché solo il denaro conta. Legislazione del lavoro e contratti collettivi non sono più considerati il nucleo centrale dell’attività lavorativa, perdono importanza e valore, perché sfugge il nesso tra debolezza giuridica e debolezza dei salari, soprattutto se, di tanto in tanto, vengono elargiti vari bonus a titolo compassionevole. A completare il quadro interviene la teoria del merito secondo la quale chi non “emerge” è un incapace, non possiede qualità positive, pertanto giustamente vive in ristrettezze ed emarginato. La disuguaglianza non è più considerata ingiusta, anzi la si percepisce come un dato di fatto immodificabile.

A mio parere è questa mentalità complessiva che ha impedito a tante persone di recarsi a votare per i referendum sul lavoro, ritenuti totalmente inutili e incapaci di mutare la situazione di fatto. Ma così è il principio cardine della democrazia che viene meno.
Aveva ragione Pepe Musjca, (2) da poco scomparso, quando sosteneva che la questione è culturale molto prima che politica. Bisogna liberare le nostre menti dall’ideologia dell’individualismo e del consumismo per poter costruire una società del “noi”, della cooperazione, della collaborazione, della comunità, con  soggetti collettivi integrati con le nuove forme di lavoro. La scommessa è quella di saper utilizzare le tecnologie per inventare nuove forme di proprietà dei mezzi produttivi, di gestione e di ripartizione degli utili. Bisogna riuscire a portare la democrazia nei luoghi di lavoro. Altrimenti il dominio dei ricchi sarà totale e spietato.

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Note:

1) A. Galdo, Il mito infranto, Codice edizioni, 2025 p. 73

2) Chomsky & Mujica con Saùl Alvìdrez, Sopravvivere al XXI secolo, Ponte alle Grazie, 2024

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