Acqua in Italia

Gabriella Carlon
08-09-2021
Sono passati dieci anni dal Referendum (12-13 giugno 2011) che conteneva due quesiti riguardanti l’acqua: la maggioranza degli Italiani ha espresso allora la volontà di escludere soggetti privati nella gestione dell’acqua potabile e di escludere la riduzione dell’acqua a merce che può generare profitto, abrogando così la legge che prevedeva il 7% di profitto per gli investimenti  sui servizi idrici. In realtà la prospettiva di pubblicizzazione dell’acqua non ha avuto attuazione, perché, essendo il referendum solo abrogativo, era necessario che si emanasse una nuova legislazione atta a modificare la gestione complessiva dei servizi idrici. Cosa che non è avvenuta con nessuna maggioranza parlamentare.

Il consumo di acqua in Italia è così distribuito:

  • 45% uso irriguo
  • 20% uso industriale
  • 15% uso energetico
  • 20% idropotabile

Va ricordato che una considerevole parte dell’acqua potabile viene usata per funzioni che  potrebbero essere espletate con acqua di qualità inferiore (es. scarichi degli apparecchi igienici, lavaggio delle strade, ecc.); fatto su cui si dovrebbe intervenire, vista la possibile penuria che si prospetta nel prossimo futuro.

In Italia si era introdotta la gestione pubblica dei servizi essenziali con la legge Giolitti del 1903 che aveva creato le aziende municipalizzate secondo l’orientamento del pensiero socialista di fine ottocento e di quello municipalista cattolico che prevedeva di affidare la gestione dei servizi sociali  a un ente pubblico. Col passare del tempo  la gestione delle municipalizzate era divenuta talvolta opaca per il prevalere di interessi pubblico-privati e, anziché sanare la gestione pubblica, si procedette, nell’ambito del neoliberismo, a una progressiva privatizzazione: dalla legge Galli (1994), alle leggi Bassanini, al decreto Ronchi (2009), progressivamente, anche l’acqua viene messa sul mercato con l’obiettivo di fare profitti.

In tali provvedimenti legislativi, pur se si ribadisce costantemente che la proprietà dell’acqua deve rimanere pubblica, si impone tuttavia che la sua gestione sia affidata con gara concorrenziale secondo le norme delle società private, tanto che il controllo da parte dell’ente pubblico, che pur si è cercato di introdurre, risulta molto problematico e inefficiente. Il gestore ha la concessione gratuita e il possesso degli impianti (si tratta dell’acqua dell’acquedotto, altra questione è la determinazione dei canoni per la concessione delle acque minerali).

Attualmente l’acqua viene gestita:

  • da società pubbliche 53%
  • da società miste 32%
  • da un ente locale 12%
  • da società private 3%

Il problema è che anche le società pubbliche sono gestite secondo le regole del privato: fare profitti e distribuire dividendi. Ad esempio ACEA (51% di Roma Capitale) distribuisce il 95,5% del reddito agli azionisti e dà al Comune di Roma una cedola di circa 70 milioni annui (1).

Il risultato negativo di tale gestione si traduce in scarsi investimenti nelle infrastrutture e aumento costante delle tariffe (2). La giustificazione portata a favore della gestione privatistica è che sarebbe più efficiente di quella pubblica, ma a smentire tale affermazione basta lo stato penoso in cui si trovano gli acquedotti, con perdite medie del 42% secondo i dati ISTAT.

Va inoltre sottolineato che la distinzione tra proprietà e gestione, che permette di sostenere che “l’acqua è un bene comune” in quanto di proprietà pubblica , è del tutto strumentale, infatti appare chiaro che bisogna distinguere tra proprietà formale e sostanziale. Il potere decisionale sta nelle mani di chi gestisce effettivamente un bene, potendo determinare investimenti, tariffe, qualità e quantità di produzione. E’ vero che ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente)  esercita il controllo, ma, posta una legislazione compiacente,  non si può certo dire che gestisca l’acqua come bene comune. Forse l’unica conseguenza del Referendum, sia pure indiretta, è che nei consumi 90 litri giornalieri a persona godono di una tariffa agevolata, mentre l’OMS considera 40 litri a persona la quota indispensabile.

Vari progetti di ripubblicizzazione dell’acqua giacciono in Parlamento,  (ultimo quello presentato dai 5stelle) ma finora nessuno è stato messo all’o.d.g. Eppure solleciterebbero in tal senso sia le dichiarazioni dell’ONU che considerano l’acqua un diritto fondamentale sia la normativa europea sui servizi pubblici essenziali. Importante è poi ricordare che la nostra Costituzione  prevede che la proprietà possa essere pubblica, privata o a titolarità diffusa: art. 43 “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Si apre qui una possibile prospettiva per la gestione dei beni comuni.

 

Però due sono i nodi da sciogliere: da un lato non è accettabile la scissione tra proprietà e gestione, dall’altro il concetto di bene comune deve comportare una connessione tra gestione del bene e corrispondenti diritti fondamentali delle persone. E’ necessario un cambiamento culturale prima ancora che legislativo. La gestione dei beni comuni non ha ancora trovato una legislazione adeguata: pubblico può non essere statale, ma deve comunque avere una gestione partecipativa. Le sperimentazioni effettuate finora hanno rilevato varie difficoltà, soprattutto in agglomerati molto numerosi perché il coinvolgimento dei cittadini, non solo nel controllo ma anche nella gestione, richiede un alto senso civico, capace di cogliere gli interessi generali, lontano da lobbie e fazioni partitiche.

Su questo futuro possibile traguardo non fa bene sperare il Recovery Plan, che  stanzia solo 4 miliardi per il riassetto idrogeologico e 900 milioni per la riduzione delle perdite (3). I progetti sono però affidati a cinque grandi società di gestione dei servizi essenziali, andando in senso esattamente contrario alla scelta referendaria, cancellando totalmente la prospettiva dell’acqua pubblica.

 

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Note

1) Il Fatto Quotidiano 8 giugno 2021
2) Rapporto ISTAT del marzo 2021 fornisce dati dettagliati regione per regione su consumi, perdite, tariffe dal 2016.
3) Sull’acqua nel Recovery Plan si vedano le valutazioni, ovviamente opposte, ai seguenti link:
Il Sole24Ore
Acquabebecomune.org

 

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