Aiutiamoli a casa loro

Gabriella Carlon
13 novembre 2017
Questo è lo slogan, non più solo della Lega, che va per la maggiore negli ultimi tempi.
Per ora significa esternalizzazione dei confini, per cui il respingimento, invece di avvenire ai confini dell’Italia o dell’Europa, avviene a confini più esterni (Turchia, Libia, forse qualche stato subsahariano).

Campo profughi di Choucha in Tunisia

Tali paesi vengono pagati perché trattengano i migranti presso di loro, in quali condizioni si finge di non sapere: la polvere sotto il tappeto non si vede, a meno di voler alzare il tappeto.
Accanto a questo modo recente di intendere l’aiuto ne esiste un altro di lunga data: la Cooperazione internazionale, dal dopoguerra a oggi, si è riversata sui paesi sottosviluppati; l’entità degli aiuti, pubblici e privati, è stata notevole ma il problema dello sviluppo non è stato risolto. Come mai?
Gli aiuti della Cooperazione hanno ovviamente migliorato le condizioni di vita dei pochi diretti beneficiari, ma hanno lasciato intatte le strutture economiche che distribuiscono la ricchezza in modo diseguale, generando miseria nella maggior parte della popolazione. Tutto ciò è particolarmente evidente in Africa, paese ricco di risorse ma destinato a non poter nutrire i suoi abitanti.
Difficile stabilire che cosa si dovrebbe fare per aiutare davvero i paesi di migrazione, ma forse alcune pratiche potrebbero essere efficaci. Politiche di lunga durata che dovrebbero perseguire:
– sicurezza alimentare o, ancor meglio, sovranità alimentare, ossia sviluppo di una agricoltura che permetta autonomia nella scelta delle colture e nella gestione dei prodotti, garantendo la proprietà contadina della terra e la biodiversità di specie che si adattano alle condizioni climatiche senza continuo bisogno di fertilizzanti e pesticidi. Esattamente il contrario di quanto operato dalle multinazionali del settore che si accaparrano la terra per lo sviluppo delle monocolture, redditizie nel commercio internazionale. Analogamente il discorso vale per l’accaparramento delle fonti idriche, con conseguenze ancora più disastrose.
– nel settore estrattivo e industriale, le materie prime dovrebbero essere estratte con procedure rispettose della mano d’opera e dell’ambiente e vendute ai paesi importatori in un rapporto paritario, non ricattatorio e di interesse equo (si pensi allo sfruttamento cui è sottoposta l’Africa in settori cruciali per la nostra economia digitale). Si dovrebbe inoltre agevolare il consolidarsi di un settore manifatturiero locale, capace di trattenere in loco, investendola, la ricchezza prodotta che altrimenti va a totale vantaggio di imprese estere.
-tali cambiamenti non si potranno realizzare se non si abbandona la politica del neocolonialismo di vecchia e di nuova data. Ma i rapporti neocoloniali convengono non solo alle potenze ex-coloniali, ma anche a un ceto dirigente africano che sfrutta il proprio popolo, magari con lo strumento della democrazia formale occidentale. Spesso, sotto sembianze democratiche, prosperano dittature e si scatenano guerre intestine disastrose. Forse bisogna chiedersi se il nostro modello di democrazia sia il più adatto a società a struttura etnico-tribale abituate a una democrazia di villaggio. L’Occidente potrebbe agevolare processi di avvicinamento a un vivere democratico reale, anziché sostenere, per interesse economico, ceti dirigenti corrotti e avidi.
Un cambiamento politico così radicale richiede tempi lunghi, ma sarebbe un avvio a un vero aiuto a casa loro.
Intanto sembra urgente governare il fenomeno migratorio con la creazione di corridoi umanitari che pongano fine alle stragi del Sahara e del Mediterraneo e con politiche di accoglienza a livello europeo. Certi che nessuna politica di respingimento ha funzionato di fronte a migrazioni di popoli che, nella storia, sono state un fenomeno costante e inarrestabile.

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