Solidarietà: brutta parola!

Gabriella Carlon
13 aprile 2018
Viviamo in una società competitiva: devono competere le aziende, gli ospedali, le scuole…e le persone. Siamo a homo homini lupus ? Non a caso Hobbes sosteneva che, a fronte di una simile umanità, solo il Leviatano poteva governare, lontano mille miglia dalla democrazia. Stiamo andando in quella direzione? Forse.
Da quando la Sinistra (non solo italiana) ha deciso che il modello di società non può che essere quello neoliberale, delineato dal Washington Consensus, stiamo marciando a grandi passi verso l’individualismo estremo, dove ciascuno pensa di risolvere i suoi problemi da solo. Almeno Adamo Smith credeva nella mano invisibile che avrebbe riportato l’equilibrio; ma oggi , constatato che il mercato non si autoregola, si persiste coscientemente nella stessa prospettiva: evidentemente alla maggioranza va bene così. Infatti è la stessa opinione pubblica che, dopo decenni di berlusconismo-renzismo, non riesce a immaginare una società alternativa, solidale, dove i diritti siano garantiti universalmente. Ma per garantire i diritti bisogna che intervengano leggi adeguate a sottrarre al mercato alcuni settori fondamentali.
Cosa è accaduto in questi decenni?
Salute: in Lombardia, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello della sanità italiana, la privatizzazione è galoppante. Liste d’attesa con tempi biblici e ticket molto costosi nelle strutture pubbliche per costringere a spostarsi nel privato convenzionato o nel privato privato, in modo che si possa fare profitto su chi, sfortunato, viene colpito dalla malattia. Inoltre chi può pagare può farsi assicurazioni private complementari, e chi non può?
Scuola: la competizione tra scuole per accaparrarsi gli alunni arriva a livelli che rasentano il comico. Ha fatto notizia la comunicazione di un Liceo romano che si vantava di non avere tra i suoi iscritti né disabili né stranieri. Davvero un bel modo di garantire il diritto all’istruzione e di fare della scuola un luogo di convivenza interculturale e interclassista. Per non parlare della sollecitazione governativa ai genitori (con una serie di spot radiotelevisivi) affinché versino soldi alla scuola dei propri figli: immaginate quanto potranno versare i genitori delle periferie rispetto a quelli dei quartieri-bene? E che dire delle sovvenzioni alle scuole private paritarie? Buona scuola per chi se la può pagare?
Lavoro: le aziende devono competere; come? abbassando il costo del lavoro con svariate forme di contrattazione individuale e a tempo determinato e comunque con possibilità costante di licenziamento individuale garantita per legge. I diritti dei lavoratori sono residuo del passato e i sindacati una cosa del secolo scorso. Ciascuno si arrabatti come può….
Pensioni: il passaggio dal metodo retributivo al contributivo è una individualizzazione della vecchiaia: tanto hai versato tanto ricevi. Peccato che chi ha avuto uno stipendio elevato ha potuto versare di più, chi ha avuto uno stipendio da sopravvivenza…….pazienza! Anche qui ciascuno pensi per sé.

Sono solo alcuni esempi di cosa significhi società competitiva fondata sulla concezione liberale dell’essere umano come individuo. Quando proprio si arriva a una frammentazione sociale così forte da diventare pericolosa, allora ci si inventa qualche forma di assistenza-elemosina per attutirne gli effetti. Per cambiare bisogna andare alla radice, l’individualismo liberale va battuto non solo in economia, ma sul piano culturale. Una società coesa e inclusiva, che tutti a parole dicono di volere, non può fondarsi sulla competizione, ma su una concezione dell’essere umano come soggetto di relazioni solidali, come per altro previsto dalla nostra Costituzione.
Certo si deve cambiare, ma attuando sempre più diritti, più uguaglianza e non più disuguaglianza.
Purtroppo l’imperativo della società di mercato non prevede aree sottratte al profitto privato. Forse però la grande diffusione del volontariato a cui assistiamo in questi anni è anche sintomo di un bisogno, presente in tanti, di relazioni solidali; forse non tutti sono paghi di vivere isolati nei propri interessi. Questo sentimento può diventare, da individuale, collettivo come modo comune di pensare, come opinione pubblica. Si tratta di concepire l’aiuto non solo come assistenza a una persona che mi sta vicino ma come gesto politico che, attraverso la tassazione, è rivolto a garantire diritti alla società nel suo complesso. Solidarietà vorrebbe che chi è sano paghi per chi è malato, chi è disagiato socialmente e culturalmente riceva di più per recuperare, chi è ricco garantisca sempre più diritti a chi vive del proprio lavoro, chi è in pensione veda la propria vecchiaia garantita dalla convergenza tra generazioni.
Si può fare politica inventando modi, anche se diversi dal passato, per agire insieme, per organizzare strutture solidali.
Solidarietà non può essere una brutta parola.

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