Dolore e lacrime in Jugoslavia (1991 – 1998)

Gruppo Corallo (a cura di Eraldo Rollando)
01-12-2017

Una premessa: dal 1872 i serbi iniziarono a pensare a un territorio dal nome “Grande Serbia” che, sulla base dell’appartenenza linguistica, il dialetto stocavo (che è alla base della lingua serbo – croata), avrebbe dovuto unire Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Macedonia, e Serbia.
Nel 1914, prese campo l’idea di sostituire il progetto di Grande Serbia con quello di “jugoslavismo”, ovvero unione degli slavi del sud (“Jugo-slav”).
Nel 1929 re Alessandro I realizzò il progetto con la costituzione del Regno di Jugoslavia: fu la premessa che portò nel novembre del 1945 alla formazione di una repubblica denominata Repubblica Socialista Federale Jugoslava con a capo il Maresciallo Tito, in cui la Serbia, guidata da Slobodan Milosevic ebbe un ruolo di primo piano.

Repubbliche federali nella ex Jugoslavia

La nuova Repubblica fu alleata con l’Unione Sovietica sino al 1948, e se ne allontanò qualche anno dopo per gestire autonomamente la propria politica interna ed estera.
I fermenti nazionalistici, linguistici e religiosi, sempre presenti, vennero gestiti da Tito con mano ferma, ma continuarono a covare nel silenzio.
Già nel 1981 si ebbero i primi sintomi che annunciavano la disintegrazione dello Stato federale jugoslavo, garantito dal governo comunista di Josip Broz Tito morto nel 1980. La regione del Kosovo (80% di albanesi) vide una sommossa di ragazzi che rivendicavano lo status di repubblica all’interno della Federazione. Furono repressi con facilità, ma fu un campanello che iniziò a squillare già dieci anni prima della dissoluzione della Federazione stessa.
Nel 1991, con la caduta del Muro di Berlino, le due provincie più ricche e legate all’Occidente da ragioni economiche, la Slovenia e la Croazia, dichiararono la propria indipendenza dando inizio alla guerra civile jugoslava: Tito era scomparso da dieci anni e il potere del Partito Comunista e dello Stato federale era passato nelle mani di Slobodan Milosevic.
Nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia uno dei fattori importanti fu l’appartenenza etnica e religiosa. Dal punto di vista religioso, vediamo che i primi problemi nacquero nel medioevo con la separazione tra chiesa cattolica romana e chiesa ortodossa: Croati e Sloveni erano cattolici, mentre Serbi e Montenegrini erano ortodossi; nel 1300 con l’occupazione turca arrivò la religione islamica.
Le separazioni religiose non furono mai nette tra i vari Stati e un certo rimescolamento mise in crisi sia le appartenenze religiose e sia quelle etniche.
Iniziò già con la Seconda guerra mondiale l’esercizio della pulizia etnica, che prese maggior virulenza durante le vicende di cui stiamo trattando.
Sono rimasti tristemente famosi i fatti accaduti la mattina del 12 luglio 1991, a Srebenica in Bosnia, quando truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic, che fu poi arrestato e recentemente condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità, massacrarono 8mila mussulmani bosniaci, praticamente di fronte agli imbelli “caschi blu” olandesi dell’Onu.
La crisi jugoslava, come abbiamo detto, ha coinvolto nella sua tragedia sia etnie sia fedi religiose; un tutti contro tutti: Sloveni, Croati, Bosniaci, Serbi, Montenegrini, Macedoni, Albanesi, Mussulmani, Cattolici e Ortodossi.
Come finì: la Jugoslavia venne smembrata e ogni Paese federato divenne indipendente.
Ma, andiamo con ordine.

1991 – Slovenia, la guerra dei dieci giorni
(chi combatté: esercito jugoslavo contro truppe slovene = vinsero gli Sloveni)
Il 30 dicembre 1990 la Slovenia, forte di una etnia omogenea, approvò con l’88 per cento dei voti un referendum per la dichiarazione d’indipendenza dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. I suoi effetti non si videro subito, perché sul fronte diplomatico né la comunità Europea né gli Stati Uniti erano favorevoli a riconoscere la sua indipendenza, mentre sul piano militare era necessario attendere per dare tempo alle strutture militari della Slovenia di adottare le strategie idonee a fronteggiare il potente Esercito Federale Jugoslavo che, si sapeva, sarebbe intervenuto nel momento stesso della dichiarazione.
Dichiarazione che avvenne il 25 giugno 1991. Il giorno dopo, come previsto, la Struttura di Comando federale iniziò a muovere reparti dell’esercito e dell’aviazione.
Gli scontri iniziarono subito con il prevalere, in un primo tempo, dell’Esercito Federale e un capovolgimento della situazione, pochi giorni dopo, a favore dell’Esercito Sloveno, che aveva adottato, in molti casi, la tattica della guerriglia. Si ebbero molte diserzioni tra i federali a causa, principalmente, della poca chiarezza d’azione sia delle autorità politiche che militari di Belgrado. Questi fatti permisero agli sloveni la cattura di molte munizioni e armi, sia leggere sia pesanti, importanti per la prosecuzione delle azioni di contrasto.
A dare idea di quale fosse il clima a Belgrado, è sufficiente citare la sfuriata in pubblico del Capo di stato maggiore, generale Blagoje Adzić, che dichiarò: “Gli organi federali ci ostacolano di continuo, richiedendo dei negoziati, mentre questi (gli sloveni) ci stanno attaccando con tutti i mezzi.
Gli scontri più gravi si ebbero il 2 e 3 luglio, durante i quali si fronteggiarono truppe corazzate da ambo le parti. La sera del 3 luglio, vista l’impossibilità di proseguire con successo le azioni sul terreno, l’Esercito Federale si accordò per un cessate il fuoco.
Nei due giorni successivi gli fu permesso di rientrare pacificamente nelle proprie caserme, mentre le forze Slovene presero possesso dei punti strategici del Paese.
Il 7 luglio, con gli accordi di Brioni, la Slovenia divenne di fatto indipendente dalla Repubblica Ferale Jugoslava.
Data la brevità del conflitto, i danni alle cose e le perdite umane furono limitati:
Si ebbero 62 caduti e 326 feriti in totale.

1991-1995 Croazia, guerra d’indipendenza
(chi combatté: truppe serbe contro i Croati = vinsero i Croati)
Oggi davanti allo stadio Maskimir di Zagabria si può ancora leggere una targa: “Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990”. Quel giorno si giocava una partita di calcio tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado. Una settimana prima si tennero, nella Repubblica Croata, le elezioni politiche che videro il trionfo del leader indipendentista croato Franjo Tudjman.
La situazione era già tesa e questo non fece altro che buttare benzina nel fuoco. In una situazione politica particolarmente incandescente, si stavano fronteggiando due compagini, le principali rappresentanti dei due popoli, quello serbo e quello croato, rivali storici tenuti assieme dall’abilità politica di Tito, ormai scomparso da 10 anni. La partita non ebbe neppure inizio: appena lo speaker annunciò le formazioni successe il finimondo.
Dopo quattro ore di scontri fra tifosi stessi e con la polizia si poterono contare circa 140 feriti gravi. Fu il preannuncio di quello che sarebbe successo pochi mesi dopo: la guerra tra Croazia e Serbia.
Un forte malumore e grave risentimento si diffuse tra la popolazione di etnia serba, quando il nazionalista Tudjman varò una nuova Costituzione in cui la Croazia venne indicata come lo “Stato dei Croati”; a differenza della Slovenia, però, la sua era una popolazione mista composta di croati e serbi: fu in quel momento che iniziarono i primi scontri tra le due etnie: si era nell’anno 1990.
La Croazia prese fuoco, però, il 25 giugno 1991, con la Dichiarazione d’indipendenza.
Fu l’atto che determinò l’intervento dell’Esercito serbo a fianco dell’Esercito Federale jugoslavo.
Si ebbero scontri cruenti, principalmente ai confini con la Bosnia e la Serbia, ma la guerra coinvolse tutto il Paese: vennero attaccate numerose città, tra le quali Zagabria. La città di frontiera Vukovar venne parzialmente distrutta e la popolazione costretta a fuggire.
Nel 1992 la Croazia venne riconosciuta da gran parte degli Stati mondiali; ciò, però, non mise fine al conflitto che proseguì sino al 1995 con fasi alterne di sospensione e di forte recrudescenza.
Gravi episodi si ebbero nella Regione della Krajina a est della Croazia dove, nell’agosto 1995, le forze dell’esercito croato misero in atto una operazione di pulizia etnica “allontanando” dai loro domicili secolari circa 250 mila serbi; furono incendiate più di 20 mila case, altre furono saccheggiate o danneggiate.
Il 21 novembre 1995, con la firma degli Accordi di Dayton, l’azione bellica cessò.

Croazia – Trattato di Dayton

 

 

 

 

 

La stima delle perdite è enorme: si parla di circa 20 mila morti fra le due parti; 52 mila croati furono dichiarati invalidi a seguito delle ostilità; circa un quarto dell’economia nazionale risultò distrutta; 500 mila furono rifugiati e i deportati, tra questi 370 mila furono i profughi serbi.

1992-1995 Guerra di Bosnia-Erzegovina
(chi combatté: Serbi contro Serbi musulmani e Croati = i Serbi persero)
La Bosnia-Erzegovina, comunemente chiamata Bosnia, aveva al suo interno una situazione linguistica – religiosa di gran lunga più complessa delle altre Repubbliche Socialiste. In essa si trovavano Serbi (ortodossi), Croati (cattolici), Bosniaci (musulmani) e una piccola comunità ebraica sefardita di origine spagnola; coesistevano, quindi, quattro religioni e quattro alfabeti (latino, cirillico, arabo ed ebraico).
Agli inizi del 1991 la Federazione Jugoslava era ormai decisamente avviata alla sua dissoluzione; uno degli artefici fu Slobodan Milosevic che, forte del potere ereditato dalla morte di Tito e facendo leva sull’idea della Grande Serbia, spinse in ogni direzione per realizzare i suoi progetti di espansione territoriale a scapito delle Repubbliche Socialiste confinanti.
Fu l’ispiratore della breve rivolta slovena e della lunga guerra croata. Non poteva non fare terra bruciata anche in Bosnia: fu così nel 1992. In quell’anno i mussulmani di Bosnia-Erzegovina proclamarono l’indipendenza, a seguito di un referendum popolare svoltosi in conformità con la Costituzione jugoslava allora in vigore; da questa consultazione risultò che più del 90% dei votanti voleva separarsi dalla Jugoslavia, tuttavia solamente il 63% degli aventi diritto si era recato alle urne: i Serbi avevano boicottato la votazione, poiché volevano rimanere nella Federazione. Successe che i Serbi di Bosnia, sostenuti dalla Repubblica di Serbia di Milošević, dichiararono, a loro volta, la Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia-Erzegovina guidata da Radovan Karadzic (Il braccio armato di Karadžić fu il generale Ratko Mladic). Anche i Croati, come i Serbi animati da mire espansionistiche (la Grande Croazia), decisero di creare all’interno della Bosnia uno stato indipendente croato. Il Paese si spaccò definitivamente: la guerra civile si abbatté con inaudita violenza. I Serbi ortodossi, i Serbi mussulmani e i Croati misero ferocemente in atto, ciascuno per propria parte, i loro piani di eliminazione di ogni presenza estranea nelle zone in cui prevaleva la propria etnia. Fu una guerra civile di tutti contro tutti in cui furono proprio i civili ad avere la peggiore sorte. Nulla e nessuno fu risparmiato.
Emblematico fu l’episodio del 12 luglio 1991, a Srebenica, quando truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic massacrarono 8mila civili mussulmani- bosniaci, nella maggioranza ragazzi e uomini, praticamente di fronte agli imbelli “caschi blu” olandesi dell’Onu.
Un secondo episodio altrettanto emblematico fu l’assedio di Sarajevo, protrattosi dall’aprile 1992 all’ottobre 1955, attuato dalle forze serbo-bosniache e dall’Armata Popolare Jugoslava: stime sufficientemente attendibili indicano in circa 12 mila le vittime e oltre 50 mila i feriti, l’85 percento dei quali civili, solo in città.
Per questi fatti, e non solo, il Presidente Serbo Radovan Karadzic e il generale Ratko Mladic sono stati condannati, tra il 2016 e il 2017, rispettivamente a 40 anni di carcere e all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
La guerra terminò con gli accordi di pace di Dayton, ratificati a Parigi nel dicembre 1995. La Bosnia-Erzegovina tornò ai suoi confini pre bellici (salvo una piccola parte attribuita alla Croazia) come Stato sovrano ma, al suo interno, furono definite due entità autonome: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio) e la Repubblica Serba (49% del territorio). La gestione amministrativa dello Stato risultata essere complicata, ma forse necessaria a mantenere gli equilibri tra le tre etnie; in particolare, la Presidenza della Repubblica di Bosnia-Erzegovina cambia ogni otto mesi, alternandosi alla sua guida un serbo, un croato e un musulmano.
Il bilancio definitivo (forse) parla di 100mila morti e un milione e 800 mila rifugiati; un bilancio in cui l’unica realtà certa è la stupidità umana.

1998-1999 Guerra del Kosovo
Con la cessazione delle ostilità in Bosnia e con gli accordi di pace di Dayton al mondo sembrò che la ex Jugoslavia fosse entrata nella normalità: così non fu.
Fu il Kosovo ad attrarre l’attenzione dei media.
Storicamente il Kosovo apparteneva alla Serbia e all’epoca della Federazione Jugoslava era parte integrante della Repubblica Socialista di Serbia, seppure con un’ampia autonomia amministrativa, dove la maggioranza della popolazione (circa l’85 percento) era mussulmana e di etnia albanese; i Serbi, e in particolare Milosevic, lo consideravano parte inalienabile della Repubblica. Nove anni dopo la morte di Tito, nel 1989, Milosevic revocò lo status di provincia autonoma cancellando contemporaneamente i privilegi linguistici, chiudendo le scuole autonome e sostituendo gli insegnanti e tutta la gerarchia amministrativa della provincia con Serbi fedeli a lui.
Nel 1990 il Kosovo si autoproclamò Repubblica indipendente; non durò molto: Milosevic ne sciolse il Parlamento, ma i Kosovari, decisi a non mollare, in breve ne elessero uno nuovo. Fu l’inizio delle ostilità. Agli occhi del mondo, e in particolare dell’Europa, parvero scaramucce di poco conto, probabilmente a causa della guerra civile in corso in Bosnia che attirava tutta l’attenzione, ma non fu così poiché anche qui si mise in moto una sanguinosa guerra civile tra l’esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e le forze serbe.
Fu solo nel 1998 che l’opinione pubblica internazionale si rese conto di quanto stava accadendo; in febbraio i Serbi diedero il via ai bombardamenti, costringendo migliaia di persone alla fuga: in Albania, in Macedonia, in Grecia.
A fine anno la Nato, vista l’impossibilità di fermare il conflitto per via diplomatica, decise di intervenire con bombardamenti su insediamenti militari in Serbia e in Kosovo per interrompere quella che si era ormai palesata come una pulizia etnica sugli albanesi là residenti; purtroppo assieme agli obiettivi militari crollano anche case, scuole, ospedali, e edifici pubblici. Dopo 78 giorni dall’inizio dell’intervento, venne raggiunto un accordo che imponeva alla Serbia il ritiro del suo esercito e il riconoscimento di un contingente militare formato da Nato e da militari di 36 nazionalità, sotto l’egida dell’Onu, a garanzia della pacificazione del territorio.
A seguito dell’ingresso delle forze internazionali si ebbe il ritorno di circa 800 mila profughi albanesi e la fuoriuscita di circa 230 mila Serbi (fonte Agenzia Onu per i Rifugiati).
Il Kosovo fu riconosciuto, in seguito, come Repubblica sovrana da tutti gli Stati, eccetto da Belgrado che, evidentemente, non accettò il boccone amaro della sconfitta.
Cessate tutte le ostilità, toccò a Milosevic raccogliere i frutti di una politica dissennata: nel giugno 2001 venne arrestato e rinchiuso in una prigione dell’Aia per essere processato dal Tribunale penale internazionale per crimini commessi nella ex Jugoslavia. Fu trovato morto nella sua cella l’11 marzo 2006: ancora oggi la sua morte rimane un mistero insoluto e il percorso del suo processo cessò senza che potessero essere chiarite tutte le sue responsabilità (che furono molte) di “deus ex machina” nel percorso di disintegrazione della Jugoslavia di Tito e nelle tremende sofferenze di milioni di persone inermi.

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