Vite prosciugate

Eraldo Rollando
7-06-2019
“Può un battito d’ali di una farfalla in Brasile scatenare un tornado in Texas?” è il paradosso inventato da Edward Lorenz, matematico e astronomo statunitense, nel 1962. Come noto, voleva indicare che una piccola variazione su condizioni iniziali di un sistema può provocare nel lungo periodo grandi variazioni sull’intero sistema: il cosiddetto “effetto farfalla”. E se, paradossalmente, tutte le farfalle battessero assieme le ali? A giudicare dalle variazioni climatiche alle quali siamo, e sempre più saremo, sottoposti si potrebbe dire che tanto paradossale, poi, non lo è.

Ma, per rimanere in quello che, per l’appunto, “paradosso” non è, vale la pena ricordare come tanti ”piccoli” interventi dell’uomo sulla natura finiscono per modificare il clima mondiale, otre a quello locale: dal taglio speculativo delle foreste naturali alle dighe che sbarrano i fiumi in ogni parte del globo, alterando il microclima locale e creando, tutti assieme questi fenomeni, un vero effetto dirompente sull’ambiente e sul clima del pianeta.

Deforestazione
Sembra che nell’Uomo l’insensato virus dell’auto-distruzione (il cosiddetto cupio dissolvi) non sia debellabile. Infatti continua a costruire mega metropoli di 10-20milioni di abitanti, che generano impressionanti fabbisogni energetici e, contemporaneamente, divora milioni di ettari di foreste naturali, incurante del danno che crea all’ecosistema a lui necessario per vivere. Per non parlare della distruzione di intere comunità tribali, il forte impoverimento della biodiversità della flora e della fauna: due macro azioni insensate che attuate in contemporanea dirigono l’umanità verso un baratro.
Se questo modo di agire potesse essere riproducibile in micro scala, a cura di ogni singolo, un’autorità superiore interverrebbe sicuramente per interrompere un simile misfatto. Questo comportamento, che sarebbe vietato al singolo individuo dalle autorità competenti, viene attuato con leggerezza su macro scala.
Le foreste coprono una superficie di 4miliardi di ettari, circa il 30% delle terre emerse, ma solo 480 milioni di ettari è protetto; nel 2005 la Fao segnalava la perdita di 13milioni di ettari all’anno (fonte WWF).
Quando pensiamo a questi fatti (meglio sarebbe dire misfatti), in nostro pensiero richiama immediatamente la foresta amazzonica in Brasile, la più in evidenza sui media; raramente pensiamo al taglio speculativo delle foreste in Indonesia, pochissimo si sa di quelle africane e delle foreste europee in accelerata via di estinzione.
“La foresta di Fagerholmsloken, nella Svezia settentrionale, era una tra le più antiche appartenenti all’ecosistema boreale della Grande foresta del Nord, che si estende dalla Scandinavia fino al Canada, passando per la Russia e l’Alaska …. non esiste più” (fonte Greenpeace).
Ci hanno restituito oggetti a noi più necessari: fazzoletti, asciugatutto, carta igienica e tovaglioli.
E poi … “sul confine tra Polonia e Bielorussia c’è quella di Bialowieza, l’ultimo frammento della foresta primaria che ricopriva l’Europa centrale” anche lei in forte pericolo di “taglio basso”.   (vedi al sito Greenpeace)
L’elenco dei disastri sarebbe lungo, ma mi fermo qui per passare ai problemi di fiumi e laghi disseccati, per gentile concessione dell’Homo technologicus.

Le Dighe .. e i canali artificiali
Limitiamoci ad alcuni casi; anche questo racconto sarebbe lungo.
Fino a qualche decennio fa, al confine tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, si estendeva il quarto lago del pianeta per superficie: il lago d’Aral, un lago salato di origine oceanica per questo chiamato anche Mare d’Aral. Nei primi anni sessanta del secolo scorso il governo dell’allora Unione Sovietica decise di prelevare, tramite canali, l’acqua dei due fiumi che sfociavano nel lago, con l’obiettivo di trasformare il deserto in aree per coltivare riso, meloni, cereali, ed irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti. Il progetto era lodevole e condivisibile se non che, nella sua progettazione, non si tenne conto dei probabili “danni collaterali”: di quel grande lago, fonte di ogni genere di vita, da quella acquatica a quella umana, sono rimaste due “pozze” di acqua ad alta densità salina contornate da una piana desertica battuta dai venti (1).
E, in genere, in questi interventi sono sempre due soggetti a soccombere: il territorio (quello vicino e quello globale) e i popoli che da quel territorio traggono il loro sostentamento.
Gli esempi, come detto, potrebbero essere innumerevoli … e dato che le farfalle hanno sempre le ali in movimento, oggi stanno battendo in Etiopia e in Kenia.

“Se a parlare non resta che il fiume” è il titolo molto indicativo della mostra presentata al MUDEC-Museo delle Culture a Milano dal 1ottobre 2018 al 6 gennaio 2019 e che sta facendo il giro del mondo: un’installazione artistica di Studio Azzurro e della fotografa americana Jane Baldwin, a sostegno di Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni

Rimane, appunto, solo il fiume Omo a raccontare la tragedia di quelle terre e di quelle popolazioni tribali, visto che le parole dell’Uomo sono state pronunciate invano in ogni palazzo, da quello più importante dell’ONU a quello più modesto delle nostre abitazioni. Gli appelli a non costruire dighe sul fiume negli anni si sono succeduti senza sosta, a differenza di altri casi in cui il velo della noncuranza ha coperto ogni voce.
Tutto inutile, la “macchina del progresso” ha continuato il suo viaggio con la costruzione di tre dighe, gettando lo sconforto tra i popoli che abitano da millenni la bassa valle del fiume Omo, in Etiopia, e sulle sponde del lago Turkana , in Kenia, nel quale l’Omo completa la sua corsa e lì si ferma. Nel giugno 2015, mentre era in corso la costruzione della terza diga sul fiume (la diga Gibe III è stata inaugurata nel 2016), l’UNESCO ha aggiunto il lago Turkana alla lista dei Patrimoni dell’Umanità in Pericolo, dimostrando così di ritenere che la sopravvivenza del celebre lago fosse a rischio.

La diga Gibe III

Sul lago, ormai stressato dallo sbarramento dell’ultima enorme diga idroelettrica, costruita nelle terre ancestrali delle tribù per fornire acqua a vaste piantagioni commerciali – tra cui quelle di canna da zucchero di proprietà cinese – incombono altri due progetti: le dighe Gibe IV e Gibe V.
Sulla costruzione di queste immense barriere è basato il mega-progetto di sviluppo agricolo ed energetico del governo di Addis Abeba. Ma, ammonisce Human Rights Watch, più le piantagioni si sviluppano e più acqua sarà deviata nei terreni e sottratta al fiume e al lago, il cui livello, nel solo periodo 2014-2016, è sceso di circa 1,5 metri provocando il ritiro del suo litorale di 1,7 chilometri. L’incubo toccato al lago d’Aral è ormai una certezza anche per il Turkana.

Eppure il Ministero dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale etiope intitolava un breve sunto del progetto “The Best Investment opportunity” (2) (“La migliore opportunità di investimento”) . Opportunità per chi? Per la tribù dei Kara, una delle numerose che da secoli vivono sulle sponde dell’Omo meridionale, o per gli investitori stranieri?
Il fiume, in passato libero dalle dighe, era fonte di sostentamento per le numerose tribù che vivevano di pesca, agricoltura e allevamento del bestiame sulle sue sponde.

Vita rurale sul fiume OMO

Con le sue periodiche inondazioni l’Omo forniva il limo necessario alla concimazione dei campi. Ora l’acqua è destinata, appunto, ad altri usi e le popolazioni che abitano le sponde … si arrangino.
E, infatti, si stanno arrangiando, complice un’altra “piaga” moderna: il turismo di massa.
Ebbene sì! Molti sono arrivati anche lì, a godere del folclore locale e a snaturare le vere tradizioni di questa gente, costretta a rappresentare finte scene di vita tribale pur di sfamarsi.
“ … la gente dei Mursi, Karo, Hamer per pochi centesimi di euro è disposta a vendere la propria immagine stereotipata. Lentamente questi popoli si sono abituati a non interagire con i visitatori, a truccarsi per farsi fotografare nelle pose più richieste, a perdere la loro anima e la loro capacità di accogliere i turisti”, è il commento di Annarita Bellarosa in un servizio su National Geographic Italia .
La faccia nascosta di questo disastro ce la mostra un recente reportage di Repubblica TV con la curatela di Pietro del Re e la regia di Enzo Aronica.

Commenti al video? Nessuno.

 

 

 

Note:
(1) Link a   it.wikipedia.org

(2) Il progetto prevede nel dettaglio le coltivazioni di:
cotone, sesamo, arachidi, soia, palme da olio, canna da zucchero, frutteti.
Quì al link del progetto 

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