Adriana F.
30-06-2021
Cambiare casacca non è un fenomeno nuovo nel panorama politico italiano. Ma oggi la frequenza è molto aumentata. Cresce di conseguenza lo smarrimento e la delusione dei cittadini di fronte a un’offerta politica già poco pregnante nei contenuti e per di più mutevole in corso d’opera.
Come tutti sanno, il cambiamento di idee, di linea o di programma, e quindi anche del gruppo politico di appartenenza, è garantito dalla Costituzione. L’Art. 67 recita infatti: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Ho grande rispetto del Parlamento, dove siedono molte persone competenti, serie e responsabili, ma mi viene da sorridere nel leggere che ogni parlamentare “rappresenta la Nazione” constatando che molti di loro, invece, sproloquiano e si accapiglino sui temi caldi del Paese, senza tuttavia proporre niente di costruttivo. Non di rado, tra l’altro, il dibattito si svolge al di fuori di Camera e Senato, veicolato da interviste o messaggi che lanciano parole-chiave e slogan ad effetto, studiati più per attirare consensi elettorali emotivi che per far riflettere gli italiani sulla validità di una proposta di legge. Spesso si tratta di una gara a chi la dice più grossa o più stravagante o più provocatoria, con il risultato di dividere la Nazione, piuttosto che coinvolgerla in un comune sforzo di riforme funzionali e di convivenza pacifica e solidale.
Questo scenario fa dubitare che la regola sancita dall’Art. 67, invece di favorire la libertà di coscienza dei parlamentari, garantisca loro la possibilità di attuare acrobatici giochi di potere personale che molti elettori non approverebbero. E che di fatto non possono essere sanzionati.
Lo spirito della legge avrebbe ancora un senso se tutto funzionasse come si erano immaginati i Padri costituenti. Ma la loro visione del Parlamento era legata agli ideali forti maturati durante una guerra mondiale catastrofica e alla valida leadership dei partiti di allora, che insieme avevano combattuto per la democrazia ed erano in grado di gestire meglio le questioni di incontro-scontro tra le forze in campo, pur con tutte le contraddizioni legate alla difficile ricostruzione e alla guerra fredda.
Nel tempo l’afflato iniziale si è perso e il gioco politico ha finito con l’essere uno scontro senza esclusione di colpi tra i diversi interessi settoriali, ognuno dei quali vuole portare a casa il massimo vantaggio possibile, anche a scapito dei perdenti e degli stessi interessi nazionali. La disillusione che questo comportamento suscita negli elettori spiega perché sempre meno italiani si rechino alle le urne (solo il 73% degli aventi diritto nell’ultima tornata elettorale, a fronte di percentuali superiori al 90% dal dopoguerra alla fine degli anni ‘70).
Nonostante i grandi mutamenti economici e sociali avvenuti negli ultimi anni, credo che tuttora i parlamentari dovrebbero considerare vincolante (almeno in linea di massima) il patto siglato con gli elettori. Votando il candidato di un partito, infatti, il cittadino gli assegna un preciso mandato: impegnarsi a portare avanti il programma di leggi e di riforme che ha presentato in campagna elettorale fino alla conclusione del suo mandato. E se qualche obiettivo dovesse essere ridimensionato o abbandonato per l’opposizione della maggioranza, la sua azione dovrebbe rimanere coerente con la visione politica complessiva espressa nel programma.
Già, ma se qualcuno avesse davvero cambiato idea e si trovasse in maggiore sintonia con un’altra formazione politica? In tal caso, a mio parere, dovrebbe mettersi in “stand by”, astenendosi dal sostenere proposte di legge o decreti contrari alla linee-guida enunciate prima delle votazioni.
Meglio ancora sarebbe se il soggetto in questione avesse l’onestà di dare le dimissioni dall’incarico, lasciando il seggio al primo degli esclusi della lista da cui proviene. Ma dubito che qualcuno dei parlamentari rinuncerebbe spontaneamente ai compensi e ai benefit garantiti dal mandato.
In ogni modo, non dovrebbe essere consentito il passaggio ad altra formazione partitica nel corso della legislatura, perché una simile migrazione tradirebbe la fiducia degli elettori, peraltro non consultati in proposito. Un patto è un patto e va rispettato. Chi non reagirebbe se qualcosa di analogo avvenisse nelle nostre questioni private? Se l’architetto consultato per ristrutturare la casa non rispettasse il progetto concordato, di certo lo solleveremmo dall’incarico senza pagargli la parcella. E se ha prodotto danni consistenti gli faremmo causa. Perché allora deve essere tollerato un cambiamento di rotta in chi copre un ruolo così importante per lo sviluppo dell’intera Nazione?
Ribadisco: è legittimo cambiare parere. Solo gli stolti o i fanatici restano graniticamente ancorati alla stessa opinione senza confrontarsi con la realtà che cambia. Ma un conto è l’evoluzione ragionata in base alle trasformazioni di un Paese, un altro è saltabeccare di qua e di là con motivazioni incomprensibili o, talvolta, inconfessabili. Anche quest’ultimo atteggiamento, tutto sommato, può essere considerato normale e legittimo in una società sempre più edonistica e competitiva, però dovrebbe essere vietato il passaggio a un altro partito, che consentirebbe al “transfugo” di votare a favore di proposte contrarie a quanto promesso agli elettori e al partito che lo ha candidato.
Come intervenire dunque? Questione non da poco, ma se siamo riusciti ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, non è escluso che si possa apportare una modifica all’articolo 67 senza nulla togliere allo spirito democratico della nostra Costituzione. La parola ai costituzionalisti.
La frequenza del cambio di partito da parte dei parlamentari c’è sempre stata, ma oggi non è molto aumentata. I dati della 18ª legislatura (l’attuale) sono ancora ben lontani da quella passata: meno della metà (4,48 cambi al mese contro 9,48). E di poco inferiori a quelli della 16ª legislatura (4,50).
Uno smarrimento da parte dell’elettorato è comprensibile, perché non sono chiare le motivazioni di questi spostamenti, anche se non penso che la maggioranza della cittadinanza conosca l’articolo 67 che esclude il vincolo di mandato: è molto più diffusa l’incredulità davanti alla libera scelta operata dal singolo parlamentare. Mi chiedo peraltro se questo sentimento sia accompagnato o meno da delusione. Bisognerebbe chiedersi quali siano le motivazioni che spingono le elettrici e gli elettori a votare quella determinata persona.
I patti sono patti e si devono rispettare, ma i parlamentari non siglano nessun patto con l’elettorato. Nemmeno volendo potrebbero manifestare il loro intendimento sulle innumerevoli questioni su cui il parlamento è tenuto a legiferare. Quello che possono fare è manifestare in generale il loro pensiero politico e starà poi all’elettorato dare la fiducia in base a queste idee e, aggiungo io, in base al loro comportamento nella vita politica, partitica e parlamentare (se con esperienze pregresse effettuate). Ritengo quindi che il parlamentare che esce dal partito nel quale è stato eletto debba continuare a far parte del parlamento. Tra l’altro il cosiddetto vincolo di mandato è una potente arma di ricatto che le segreterie dei partiti esercitano nei confronti della singola persona eletta. Se i partiti fossero enti con un funzionamento democratico, potrei forse esprimermi a favore del vincolo di mandato, ma oggi certamente non lo sono. Ho detto “forse” perché i vantaggi della democrazia rappresentativa derivano anche da una qualche autonomia di manovra che è consentita ai rappresentanti, consentendo loro di disporre di un margine di azione e di decisione anche indipendentemente dalla pressione dei partiti e degli interessi.
La percentuale delle persone votanti rispetto al totale del corpo elettorale in Italia è calata nel tempo, ma occorre ricordare che fino al 1993 era in vigore una sanzione per chi non andava a votare. In Belgio questa sanzione è ancora in vigore e spiega, a mio parere, l’elevata affluenza alle urne, non dovuta a una particolare affezione dell’elettorato.
Probabilmente il modo migliore per scoraggiare le numerose migrazioni da un partito all’altro – fenomeno che in effetti considero troppo sviluppato – potrebbe essere la pubblicizzazione delle motivazioni addotte in modo da sbugiardare gli eventuali Scilipoti di turno, ma sarà poi l’elettorato a dire l’ultima parola, come del resto ha sempre fatto.