Che fine ha fatto l’appello di Oxfam?

«Un giorno senza spese militari salverebbe dalla fame 34 milioni di persone». Questa la campagna lanciata da Oxfam per sollecitare più aiuti per i Paesi dove ancora si soffre e si smuore per insufficienza alimentare.

Adriana F.
29-05-2021

Oxfam torna a monitorare le enormi diseguaglianze che esistono nel mondo tra super-ricchi e ultra-poveri. La campagna lanciata lo scorso aprile, però, è più di una semplice denuncia perché mette sotto accusa non solo gli individui con grandi patrimoni, ma anche le politiche dei maggiori Paesi del mondo. La lettera aperta inviata agli Stati e ai leader mondiali, infatti, conteneva un appello di forte impatto: rinunciare per un solo giorno alle spese militari per salvare dalla fame 34 milioni di persone.
L’iniziativa è stata lanciata da Oxfam e dalle 250 organizzazioni che ne fanno parte, mettendo l’accento sulle crescenti difficoltà da esse riscontrate nel dare aiuto a circa 270 milioni di persone che soffrono la fame o le conseguenze di carestie in tutto il mondo e che non hanno strumenti per costruirsi un futuro sostenibile.
“Sono le azioni umane che causano carestia e fame”, si legge nella lettera, “e sono le nostre azioni che possono ridurre gli impatti peggiori. Dobbiamo tutti fare la nostra parte. Ma voi, in quanto leader, Stati e governi avete una responsabilità particolare, e vi chiediamo di agire ora”.
Il messaggio chiede in primo luogo di intensificare gli sforzi e di lavorare con tutte le parti coinvolte per porre fine ai conflitti e alla violenza in tutte le sue forme, affinché l’assistenza umanitaria possa raggiungere le comunità senza impedimenti e offrire un sostegno urgente ai più bisognosi. Queste comunità non hanno strumenti per affrontare né i cambiamenti climatici né l’impatto della pandemia, e oggi soffrono più che in passato per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Solo un intervento tempestivo contribuirebbe a salvare milioni di individui da fame e carestie presenti e future, evitando conflitti, sfollamenti e migrazioni.
Rinunciare per un solo giorno alle vendite di armi farebbe risparmiare complessivamente 5,5 miliardi di dollari che potrebbero implementare gli aiuti umanitari già assegnati, che sono oggi insufficienti e risultano addirittura diminuiti negli ultimi anni.

L’appello di Oxfam non sembra aver avuto adesioni o commenti da parte dei leader mondiali (ma a tale proposito invito i lettori a segnalare eventuali riscontri che smentiscano questa mia affermazione). Da un lato l’esortazione giunge in un periodo di seria crisi economica causata dalla pandemia anche nei paesi più sviluppati, fattore che non ha certo favorito l’attenzione di governi e cittadini verso chi si trova in condizioni estremamente drammatiche. Dall’altro lato la vendita di armi è una voce importante del budget di tutti gli Stati e del business di importanti aziende, che hanno mille strumenti (leciti e non) per orientare le decisioni dei governi. E l’Italia non fa eccezione.

Ne parla in un’intervista del 20 aprile scorso su greenreport.it, Francesco Petrelli, policy advisor di Oxfam Italia.«La spesa militare è di circa 1.900 miliardi di dollari all’anno a livello globale – precisa – a fronte di una contrazione degli aiuti nelle regioni più vulnerabili in costante stato di emergenza umanitaria … Nel primo trimestre del 2021, i grandi donatori internazionali hanno stanziato solo il 6,1% dei 36 miliardi di dollari richiesti dalle Nazioni Unite per far fronte alle più gravi emergenze umanitarie in corso, mentre per la lotta alla fame aggravata dalla pandemia hanno destinato appena 415 milioni, il 5,3% dei 7,8 miliardi di dollari necessari ad evitare milioni di morti».
Petrelli osserva inoltre che anche l’Italia ha seguito questa tendenza: gli aiuti bilaterali per far fronte all’insicurezza alimentare nei Paesi poveri si sono contratti, passando da oltre 108 milioni di nel 2018 circa 66 milioni nel 2019. Eppure nel 2019 il virus non aveva ancora prostrato l’economia del nostro Paese! Secondo Petrelli un simile disimpegno sul fronte umanitario è indicativo di un fallimento politico e morale che richiede un totale cambio di prospettiva perché «la fame nel mondo non è solo e tanto mancanza di cibo, quanto mancanza di uguaglianza». Il suo auspicio è che i leader mondiali riescano a trovare soluzioni efficaci e sostenibili per porre fine ai conflitti in atto: una condizione indispensabile perché le organizzazioni umanitarie possano soccorrere la popolazione anche in zone attualmente impossibili da raggiungere.

Il peso delle armi italiane


Nemmeno gli ultimi sviluppi della politica italiana sembrano andare in una direzione più virtuosa. Come si legge nel dossier “Nuovo governo, vecchie armi” pubblicato sul n. 235 di Altreconomia, anche in tempi di pandemia il settore degli armamenti “si è costruito un futuro roseo”. A confermarlo è Mil.€x, Osservatorio sulle Spese Militari italiane, che il 23 aprile ha elaborato qualche anticipazione sulle risorse che saranno destinate dal governo alla spesa militare italiana: quasi 25 miliardi di euro nel 2021, con un aumento dell’8,1% rispetto al 2020. Significativo (e sconfortante) è il confronto tra questa cifra e i fondi messi a disposizione del ministero della Salute, che ammontano a 2,14 miliardi di euro complessivi, ossia all’1,5% del totale disponibile e 17 volte meno di quanto allocato per la spesa militare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulle enormi cifre assegnate al settore militare ha preso posizione anche l’Accademia Apuana della Pace con una lettera aperta ai nostri parlamentari intitolata “Il Recovery Plan armato del governo Draghi: fondi UE all’industria militare”.
Nel documento l’associazione ha espresso il proprio sdegno “perché le Commissioni Difesa di Camera e Senato, all’unanimità, hanno approvato due testi pressoché identici nei contenuti, con cui si auspica l’inserimento delle spese militari tra quelle finanziate dal Piano di Resilienza e Ripresa italiano, determinando così un incremento cospicuo della spesa militare italiana, a cui sono già destinati 27 miliardi di euro, provenienti dai Fondi pluriennali di investimento”.

Riguardo alle nostre vendite di armi all’estero, sono interessanti i dati della “Relazione governativa annuale sull’export di armamenti” relativa al 2020, riportati sul sito della Rete Italiana Pace e Disarmo (RIPD). Dalla suddetta fonte parlamentare si apprende che lo scorso anno le nuove autorizzazioni per esportazione di armi hanno raggiunto i 3.927 milioni di euro di controvalore, in calo rispetto al 2019 per l’impatto della pandemia, ma non messe in ginocchio come altri settori economici. Ma l’elemento più critico è che la maggior parte delle armi prodotte in Italia risultano destinate a Paesi non UE e non NATO, con l’Egitto al primo posto per numero di licenze (pari a un controvalore di 991,2 milioni di euro). E per il quinto anno consecutivo la maggior parte degli armamenti e sistemi militari italiani finiscono nelle zone di maggior tensione del mondo: il Nord Africa e il Medio Oriente. Un fattore, questo, che la RIPD considera problematico perché “la legge italiana sancisce che le esportazioni di armamenti italiani devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 1)”.
Altro aspetto singolare sottolineato da tutte le fonti è che in Italia la spesa nazionale per questo settore sia sempre stata approvata senza alcuna opposizione con ogni tipo di governo, in nome “della difesa e della sicurezza dello stato”. Peccato che le singole voci di spesa non riguardino affatto tali importanti obiettivi, ma piuttosto le logiche di profitto delle aziende produttrici di armamenti, incluse quelle a controllo statale. Personalmente non credo che molti italiani si sentano più difesi e sicuri sapendo che le nostre armi vanno a finire proprio dove ci sono guerre devastanti che uccidono e affamano la popolazione civile e causano la fuga di milioni di individui.
Non sarebbe meglio provare a invertire la rotta e investire quelle ingenti risorse per costruire la pace dove ancora non c’è? Già immagino le obiezioni dei benpensanti: ma se non gliele vendiamo noi, le comprerebbero da altri! Vero, forse. Ma come si può accettare di essere corresponsabili (anche se involontari) di guerre che causano distruzioni, morte e disperazione per milioni di persone?

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