Uno vale uno

 

Gabriella Carlon
14-05-2021

Nella ricerca di strumenti per migliorare la democrazia rappresentativa occupa un posto rilevante la teoria dell’Uno vale uno. Ma che cosa significa?
Scontato è che ogni essere umano ha gli stessi doveri e gli stessi diritti davanti alla legge, secondo il principio di uguaglianza che deriva dalla Rivoluzione francese.
Un altro aspetto su cui generalmente si concorda è che ciascuno di noi è diverso dall’altro per sensibilità, cultura, competenze. Pertanto se siamo malati cerchiamo il bravo medico, se vogliamo un abito elegante la buona sartoria e così via: quasi nessuno si affiderebbe a una persona qualunque invece che a un competente. Dico quasi, perché su certi argomenti qualcuno si sente esperto comunque, dal calcio ai vaccini. Per non parlare della didattica da praticare nelle scuole: i gruppi WhatsApp delle mamme sono ormai i centri di eccellenza, ma ciò dimostra solo quanto nella nostra società sia svilita la professionalità dell’insegnante. E anche quanto la diffusione dell’Uno vale uno abbia contribuito a screditare le competenze: i “professoroni”, come vengono definiti gli esperti, non sarebbero da ascoltare, perché sorpassati e inadeguati, poco moderni. Tuttavia non è questa l’interpretazione più diffusa.

Ma allora in quale ambito Uno vale uno? L’interpretazione più diffusa e più deleteria del concetto Uno vale uno si osserva nel rapporto governati – governanti. Le due funzioni vengono oggi considerate da molti intercambiabili: il comune cittadino dovrebbe poter diventare governante, per un periodo molto limitato, onde evitare che si formi un ceto di politici di professione (la “casta”). Detta interpretazione si giustifica col principio della sovranità popolare. Se la sovranità spetta al popolo, perché ciascuno non dovrebbe esercitarla direttamente? O non potrebbe essere eletto senza condizioni o filtri di sorta? Rimandando per ora la riflessione sulla democrazia diretta, vediamo questa seconda ipotesi. Il problema è un rompicapo di lunga durata.

Già Platone se lo era posto, quando metteva in evidenza che esiste un conflitto tra la competenza e la democrazia: infatti se chiediamo competenza specifica per tutte le funzioni esercitate nella società, non dobbiamo chiederla forse anche per il governo della polis? Platone risponde di sì. E siccome la competenza per governare presuppone la conoscenza della giustizia, e in essa sono competenti i filosofi, toccherà a loro reggere le sorti della polis. Solo così si rendono compatibili competenza e governo.
Ma il governo dei filosofi è davvero democratico? La risposta non è così semplice. E’ vero che Platone ritiene che chiunque possa diventare filosofo, anche lo schiavo se opportunamente educato, ma è anche vero che non ritiene auspicabile il governo gestito dal popolo, proprio perché il popolo non possiede le competenze adeguate. Platone risolve il dilemma mediante la convinzione che sia possibile conoscere razionalmente la giustizia, cioè il bene assoluto, complessivo della polis. Ma oggi non siamo altrettanto sicuri che si possa conoscere la giustizia in assoluto. Come si fa infatti a stabilire che cosa è giusto per una società?

I cittadini sono portatori di interessi, valori, concezioni del bene comune molto diversificati: il governo non può che nascere da una mediazione. Il governante dovrebbe essere in grado di mediare tra le diverse istanze, avendo in mente un modello di società: quello esistente (e sarà un conservatore), quello passato (e sarà un reazionario), quello da costruire con maggior giustizia e meno disuguaglianze (e sarà un progressista). Tutto ciò richiede una serie di competenze: teoriche per prefigurare il modello di società da realizzare e strategiche per operare la mediazione necessaria a mantenere la coesione sociale. Il politico non si può improvvisare; dovrà formarsi con un adeguato cursus honorum e con una cultura specifica, che gli permetta di elaborare un modello di società: solidale o concorrenziale, inclusiva o selettiva, ricca di beni comuni o di beni privatizzati, dotata di servizi universali e pubblici o affidati al mercato e così via. Una volta che la maggioranza dei cittadini avrà scelto il modello ritenuto migliore, il politico metterà in atto le necessarie mediazioni, aiutato certo anche dai tecnici che troveranno gli strumenti più adatti.

Ma chi può garantire che i candidati a governare abbiano le doti necessarie? Chi farà la selezione?

I partiti dovrebbero avere in questo ambito una grande responsabilità, sia nella formazione sia nella selezione dei candidati da proporre ai cittadini (cui dovrebbe spettare la scelta definitiva), perché da ciò dipende il livello dei nostri organi elettivi. Giustamente il movimento 5stelle ha assunto come primo requisito l’onestà, ma purtroppo non basta l’onestà a fare un buon governante, anche se si tratta di un prerequisito assolutamente necessario. In realtà in questi ultimi decenni i partiti non hanno affatto selezionato né i competenti né meno che mai gli onesti, tanto che la magistratura si vede costretta a perseguire reati commessi dai governanti o dai parlamentari, generando un improprio venir meno della divisione dei poteri.

In questo quadro che spazio ha il cittadino comune, il governato, che pure è il portatore ultimo della sovranità? Il suffragio universale gli ha conferito il potere decisionale che si esplica attraverso il voto: questo è davvero l’ambito in cui Uno vale uno. Ma anche qui non mancano i problemi.

Il pensiero liberal-democratico dell’Ottocento portò avanti in parallelo la battaglia per il suffragio universale e per l’istruzione obbligatoria, pensando che un cittadino adeguatamente formato avrebbe saputo scegliere, tra le diverse opzioni politiche, quella più confacente ai suoi interessi e ai suoi ideali. Ma forse i totalitarismi del Novecento, ampiamente approvati dalla maggioranza dei cittadini, ci fanno capire che l’istruzione obbligatoria non basta a formare menti critiche in ambito politico, sia perché la politica è complessa e richiede studi specifici, sia perché il linguaggio politico è spesso ambiguo e ha bisogno di interpretazione. Una funzione indispensabile avrebbero pertanto i corpi intermedi della società, partiti sindacati associazioni, che potrebbero diffondere conoscenza e aiutare l’opinione pubblica ad approfondire i grandi temi attraverso il dibattito e il confronto, per rendere più consapevole il momento del voto.
Esistono forse altre vie?


Foto d’apertura da “nonsiseviziaunpapero.com”

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