Gabriella Carlon
21-09-2021
La crisi della democrazia rappresentativa sollecita a trovare soluzioni alternative: la più radicale è la democrazia diretta, che cancella il concetto di rappresentanza ed elimina la distanza tra governati e governanti. Sembra una soluzione altamente democratica, perché chiama direttamente i cittadini ad operare le scelte politiche.
L’obiezione classica alla democrazia diretta è che il suo funzionamento è compatibile con piccoli numeri, ma impossibile con i grandi numeri di elettori presenti negli stati moderni.
Però l’informatica potrebbe trovare la risposta a tale obiezione, in quanto la Rete consente potenzialmente a un gran numero di persone di partecipare al dibattito e al voto su un determinato quesito. Si può ovviamente osservare che in una assemblea il dibattito può portare a votare su proposte di mediazione, mentre in Rete la scelta è secca, come per altro nei quesiti referendari. Si può anche osservare che, sul piano empirico, i tentativi finora effettuati di democrazia digitale sono stati piuttosto deludenti, sia per numero dei partecipanti sia per qualità del dibattito sia per la poca trasparenza nella gestione della piattaforma. Quest’ultimo aspetto è particolarmente delicato, perché sappiamo che chi ha più disponibilità finanziaria, e non solo, può invadere la rete con messaggi fasulli e inficiare i risultati.
Tuttavia, a mio parere, l’obiezione più radicale alla democrazia diretta va portata su un terreno non procedurale, ma politico. Infatti la democrazia diretta poggia su alcuni presupposti: che non siano necessarie competenze specifiche per operare scelte politiche e che non abbiano ragion d’essere i corpi intermedi.
Negli ultimi decenni molto si è operato in questa direzione. Innanzitutto si sono chiuse le scuole di partito che dovevano preparare e selezionare il personale politico, presupponendo che chiunque possa svolgere funzioni amministrative o legislative a prescindere dalle competenze. Di conseguenza si è tolto sempre più spazio ai corpi intermedi che avevano funzione di raccordo tra governati e governanti, di formazione e orientamento del corpo elettorale sulle questioni di macroeconomia e di governo della società. I partiti sono stati svuotati del loro radicamento territoriale per farli diventare pure macchine elettorali; il sindacato è stato colpito nei suoi fondamentali obiettivi: affermazione dei diritti dei lavoratori e difesa del salario. Si è provveduto, da parte di tutti i partiti, a togliere diritti, a rendere precario il lavoro con leggi ad hoc (da Treu a Renzi) e a tenere bassi i salari oscurando i contratti nazionali per valorizzare accordi locali o addirittura individuali. Il sindacato non è stato in grado di reagire a questo attacco.
L’idea che sta a monte di tale approccio è che la società è solo una somma di individui e non un collettivo che reclama la realizzazione di un bene comune. Si tratterebbe, insomma, di far prevalere gli interessi della “maggioranza”, intesa come un insieme di interessi privati.
La democrazia diretta è funzionale a tale ideologia, perché, nel dibattito pubblico, non esiste più un orizzonte collettivo e forse nemmeno un’idea di società. Si compiono scelte privatistiche, ciascuno per sé, senza mediazioni tra interessi contrapposti. Inoltre, non esistendo un disegno generale ed essendoci accordo su un pensiero unico da non mettere in discussione, le decisioni da prendere sarebbero su questioni particolari e limitate.
Viene alla luce un concetto di democrazia attualmente molto in auge: la maggioranza vince e governa nel silenzio dell’opposizione; solo nel momento elettorale si esprimerà un giudizio. Si realizza così quella che Rousseau chiamava dittatura della maggioranza, anche se le procedure formali della democrazia sono rispettate.
La democrazia è davvero solo questione di procedure? Non lo penso, né tale è la democrazia prefigurata dalla nostra Costituzione. La quale, infatti, prevede una società in cui le libertà individuali siano temperate dalla realizzazione del bene comune, fondato su un principio solidale: solo continue mediazioni tra visioni e interessi diversi possono realizzare la volontà della maggioranza più larga possibile.
La capacità di mediazione e di inclusione dovrebbe essere la caratteristica del politico serio, competente e responsabile, ma ciò non può realizzarsi nella democrazia del sì – no.
Una società solidale richiede sia una rappresentanza capace di operare le necessarie mediazioni, sia una funzione costante e costruttiva dell’opposizione, mentre la democrazia diretta può solo generare fratture e odio sociale anziché coesione. La crisi attuale della democrazia rappresentativa dipende dal fatto che se ne sono distrutti i presupposti, ma la democrazia diretta non potrebbe che esasperare la situazione, riducendo la vita politica a una la lotta per il potere.
Bisogna davvero volere una società in cui i diritti umani siano rispettati e in cui si combatta contro le disuguaglianze. Bisogna anche creare nuovi corpi intermedi che sappiano condurre i cittadini a una partecipazione più attenta e a un coinvolgimento più diretto. Cosa che al momento non si vede.
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Note:
Foto d’apertura: votazione di una Comunità Rurale nel Canton Glarona in Svizzera (fonte Wikipedia)
L’articolo contrappone la democrazia rappresentativa alla democrazia diretta e questa viene criticata su due piani: quello procedurale e quello politico. Sul primo piano, l’autrice osserva che, mentre in assemblea il dibattito può portare a votare su proposte di mediazione, in rete e nei referendum la scelta è secca. Nei referendum sicuramente sì, ma in rete non è affatto detto che sia così, perché essa consente tranquillamente di far assistere al dibattito assembleare le persone ad essa collegate ed eventualmente farle votare su una mozione frutto di una mediazione. Le votazioni – sia in assemblea che in rete – sono sempre su scelte secche sì-no: una mozione viene approvata o respinta, al termine di un processo di mediazione, che nulla vieta sia presente anche in rete (cosa impossibile nei referendum). Da questo punto di vista, l’unica differenza tra il voto in assemblea e il voto in rete è che il primo è in presenza, il secondo è in remoto, entrambi con la possibilità di mediazione.
Si sostiene poi che sul piano empirico, i risultati finora ottenuti dalla democrazia diretta sono deludenti per 3 motivi: quantità dei votanti, qualità del dibattito, trasparenza del processo. Il numero dei votanti – qualunque tema si scelga (es. elezione di Conte a presidente del Movimento 5 stelle con 67.000 votanti) – è di gran lunga superiore alle votazioni in presenza. Nel caso del Movimento 5 stelle: 100 volte superiore ai membri della camera, 500 volte superiore ai membri della direzione di un partito, 4000 volte superiore ai membri della segreteria di un partito. Le uniche votazioni, da parte di corpi intermedi, che riportano un numero di votanti superiore a quello dei voti in rete sono le primarie, talora usate da qualche partito o coalizione di partiti. Per quanto riguarda la qualità del dibattito, probabilmente essa è inferiore in rete a causa di una maggiore frequenza dei discorsi insultanti e odianti (dovuta sostanzialmente all’anonimato), dell’autoesclusione delle persone allergiche a questo clima intollerante e della oggettiva maggiore difficoltà a mettere per iscritto le proprie argomentazioni rispetto all’esposizione orale. Nulla però vieterebbe di usare in rete le modalità di intervento orale analoghe a quelle di chi interviene in presenza. A causa della Covid ci sono state moltissime esperienze di questo tipo. Una volta appresi i meccanismi tecnici di gestione dei dibattiti in remoto (piattaforme funzionanti, esistenza di un moderatore, microfoni gestiti da chi modera, interventi solo su richiesta nominativa, ecc.), la democrazia digitale è analoga alla non digitale. Per quanto riguarda la trasparenza nella gestione della piattaforma, a mio avviso è forse la questione più delicata, non tanto per il ruolo dei finanziatori, quanto per l’esistenza di eventuali conflitti d’interessi, emersi chiaramente nella confusione dei rapporti tra il Movimento 5 stelle e la Piattaforma Rousseau. Premesso che entrambi hanno subito la sorte riservata ai pionieri (assenza di esperienze precedenti), ritengo che sia certamente possibile trovare un gestore (pubblico) che sia al di sopra delle parti.
L’autrice però concentra l’attenzione sugli aspetti politici della democrazia diretta, i cui presupposti sarebbero: A) per operare scelte politiche non sono necessarie competenze specifiche, B) i corpi intermedi non hanno ragion d’essere. Il primo presupposto è condiviso anche da chi sostiene la democrazia rappresentativa. Infatti, l’attuale suffragio universale per l’elezione degli organi intermedi (dal consiglio municipale al parlamento europeo) – una delle principali scelte politiche – non richiede nessuna competenza. Richiedono invece una specifica competenza coloro che criticano sia la democrazia rappresentativa che quella diretta perché esse concedono a tutti il diritto di voto, che andrebbe viceversa riservato alle persone che hanno acquisito un certo pacchetto di conoscenze (tra cui l’alfabetizzazione). Attenzione: dire che la competenza non è necessaria non equivale a dire che essa è inutile. Perfino nella teoria che sostiene il caso come criterio di elezione delle cariche – non ci sono solo la democrazia rappresentativa e quella diretta (dall’antica Grecia alla moderna Europa ci sono molti esempi in questo senso) – le persone elette (senza conoscenze) alle cariche pubbliche è bene che svolgano corsi di formazione che le rendano più efficaci nel loro lavoro politico. Infatti, un conto è dire “posso eleggere a una carica pubblica anche un analfabeta perché non intendo limitare l’accesso al potere per motivi culturali (che spesso è collegato al censo, cioè per motivi di classe)”, un conto è dire “l’analfabeta eletto è inutile che venga formato”. Ciò significa che le scuole di partito – se i partiti continuano a esistere – è bene per tutti che esistano, qualunque sia l’idea ottimale di democrazia.
E qui veniamo al secondo presupposto. Ammetto che la democrazia diretta non veda con particolare simpatia i corpi intermedi. Mi sembra nel contempo che la realtà italiana abbia dimostrato che i sostenitori della democrazia diretta, messi alla prova della gestione di un intero paese, si rendano pian piano conto – certo, non tutti e con ritmi diversi – che le mediazioni politiche siano necessarie, anzi, di più, in tanti casi benemerite perché permettono di rendersi conto di quante sfaccettature abbiano i problemi da risolvere. D’altra parte, la stessa costituzione italiana, sempre citata come massima espressione della democrazia rappresentativa, ha al proprio interno lo strumento del referendum, lo strumento eccellente di chi non vuole mediazioni. Ma l’Assemblea costituente ha ritenuto, nella sua capacità di mediazione, che in certi casi, quando la volontà del parlamento sembra non coincidere con la volontà popolare, sia concesso chiedere direttamente il parere del popolo. Ciò significa che gli strumenti della democrazia rappresentativa e quelli della democrazia diretta – ma io aggiungo anche lo strumento del caso – non sono in contrapposizione ma possono essere complementari.
Alcune considerazioni sul criterio del caso per eleggere i rappresentanti. Il caso abolisce la scelta per raccomandazione/corruzione. Una certa percentuale di parlamentari estratti a sorte permetterebbe al parlamento di migliorare le sue leggi dal punto di vista del miglior benessere sociale. Poiché solitamente i membri del parlamento votano le leggi non in base alla loro bontà, ma in base a chi le ha proposte (sì a quelle del proprio partito e no a quelle degli altri), la presenza di un certo numero di parlamentari indipendenti (come sono per definizione quelli sorteggiati) farebbe prendere maggiormente in considerazione la loro utilità sociale (benessere collettivo) diminuendo il tasso di faziosità. Un articolo uscito su “Le scienze”, da me citato in un intervento di Maggio, cerca di dimostrarlo.
Più di una volta ho sentito affermare che l’Italia andrebbe gestita come un condominio. Più grande, più complesso, ma con una stessa logica di pragmatismo e di efficienza. E’ sotto gli occhi di tutti come il nostro Paese abbia bisogno di funzionare meglio e in maniera più efficace, ma non credo che il paragone sia adeguato.
E’ proprio nei condomini che si creano maggioranze che di fatto sono la somma di interessi particolari delle singole persone, che si creano lunghi periodi in cui è tutto affidato all’amministratore di turno che cerca una situazione stabile che non gli crei problemi e propone grandi opere per le quali otterrà un tornaconto (percentuali varie, quando è “onesto”…), è nei condomini che spesso si creano divisioni e non ci si parla più “perché qualcuno ha colpito un mio interesse”.
L’articolo puntualizza molto bene come alla base di un Paese non debba esserci questa logica in quanto l’obiettivo non può che essere il bene comune, al quale il singolo interesse non può che sottostare, fatti salvi i diritti fondamentali della persona: e sono proprio questi che devono essere perseguiti, cercando anche tutte le mediazioni possibili perché non vi siano lacerazioni nel corpo sociale. Lo scopo non è dividere i cittadini nei loro interessi particolari, ma unirli e renderli solidali per l’obiettivo del bene comune, pur nelle differenze, inevitabili e sacrosante.
Concordo sulle diverse motivazioni per cui la democrazia diretta non aiuta in tutto questo, anzi favorisce l’instaurarsi di un individualismo senza possibilità di mediazioni e di un populismo che agita la bandiera di una pseudolibertà: non è questa la via da percorrere, anche se l’altra, quella della democrazia rappresentativa, ha davanti a sè tanta, ma tanta strada da da fare…