Oro blu: la corsa all’acqua – parte quarta

Nate nell’antichità per regolare il corso delle acque e facilitare l’irrigazione dei campi, le dighe oggi sono diffuse principalmente per la produzione di energia elettrica. La loro  presenza ha finito per stravolgere gli ecosistemi della fauna acquatica e bloccare lo scorrere dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, per non parlare dei danni all’ambiente circostante.
Il Mekong è l’emblema di questo disastro.

Eraldo Rollando
17-09-2021

Mekong: il fiume che soffre tra dighe, siccità e inquinamento
Nasce a 4500 metri di altezza sull’altipiano del Tibet, là dove viene chiamato Za Ciu, una zona dalla quale nascono anche il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, che si precipitano verso la Cina. Il giovane Mekong scende a valle sgroppando e scalciando come un puledro, già conscio delle costrizioni a cui l’uomo lo sottoporrà.

Il percorso del Mekong

Questo corso d’acqua è qualcosa di più di un fiume, è un’identità: sei Paesi asiatici – Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e la provincia cinese dello Yunnan – abbracciano il suo bacino idrico dove vivono 90 milioni di persone appartenenti a quasi 100 gruppi etnici, accomunati da radici culturali, storiche e in alcuni casi linguistiche, e dove il panorama è dominato dalla risaia da cui traggono il loro maggiore sostentamento.
Quando lascia la Cina ha già registrato un balzo di 4000 metri e, raggiunto il confine con Myanmar e Laos, è ormai a quota 500 metri dove ha consumato circa metà del suo percorso iniziando a prendere un passo tranquillo e “rassicurante”.

Considerato il secondo contenitore di biodiversità dopo il Rio delle Amazzoni – nel suo corso vivono circa 1.200 specie di pesci, molluschi e crostacei, alcuni dei quali, come i gamberetti, vengono allevati – fornisce acqua e limo alle produzioni agricole di Laos, Vietnam, Cambogia e in misura minore in Thailandia, che vedono il riso come coltura preminente.
Per i sedimenti che trascina durante il viaggio, le sue acque passano dal cristallino al marrone; un colore nel quale si nasconde una grande insidia: sono gli scarichi di circa 210 siti industriali, che riversano quotidianamente agenti inquinanti nel fiume; tra essi  metalli pesanti, arsenico, mercurio, oltre a pesticidi come il DDT.
Da questo punto di vista ha raggiunto il triste primato di essere tra i 10 fiumi più inquinati al mondo. (lecopost.it
Nel suo percorso, Il Mekong ha preso a frequentare cattive compagnie: oltre a registrare gli  scarichi industriali, vede in azione tecniche di pesca distruttive, “furti di sabbia” nel delta, deforestazione selvaggia e costruzione di enormi dighe per la produzione di energia elettrica, che stanno determinando cambiamenti preoccupanti.
Anche in questa parte del mondo gli sbarramenti rappresentano un’opportunità economica per chi li costruisce e un incalcolabile danno per chi ne sopporta le conseguenze.
Una sintesi dell’impatto delle dighe sui territori viene offerta dal settimanale Altreconomia: “La costruzione di alcune dighe cinesi sul Mekong ha causato secche e inondazioni che hanno determinato una riduzione della pesca in Cambogia e della produzione di riso in Thailandia, colpendo anche 17 milioni di vietnamiti che vivono sul delta del fiume” (Altreconomia.it – 26 maggio 2016).
Ed è proprio in Vietnam, che la ridotta portata del fiume e il prelievo “selvaggio” di sabbia  – circa 500 ettari all’anno -, sta iniziando a creare problemi alla pesca e all’agricoltura. 
Asianews, in un servizio del 14 aprile 2021 segnala, appunto, il grave fenomeno dell’estrazione della sabbia a opera sia di soggetti legalmente costituiti che di organizzazioni illegali.

Il fenomeno erosivo su una sponda del fiume

Questa pratica, attuata in modo sconsiderato, causa la perdita di molti terreni agricoli destinati alla risicoltura e la distruzione di villaggi sulle rive; l’erosione delle sponde, il dragaggio del letto del delta, e la riduzione della portata del fiume fanno sì che si notino i primi segni d’ingresso del mar Cinese Meridionale nelle acque dolci del grande fiume. La conseguente salinizzazione del suo fondale e delle acque dolci crea un habitat inadatto alla vita dei pesci, che si evidenzia in riduzione della quantità di pescato. Per un paese in forte crescita economica – nel periodo 1990-2010 la sua economia è stata tra le cinque a più alta crescita nel mondo e nel 2020 ha registrato un  più 6 percento annuo – abitato da 98 milioni di persone con una maggiore possibilità di spesa anche alimentare e la cui nutrizione si basa principalmente sul pescato e sulla coltivazione del riso, il rischio è davvero alto.
Ma non è tutto: il fiume, che già vede la presenza di molti sbarramenti sul suo percorso, si prepara a vederne crescere altri.

Il boom delle dighe
Non sappiamo se altrove, dove vengono costruiti sbarramenti, tali strutture siano realizzate seguendo una pianificazione che consideri gli effetti sull’intero bacino idrogeologico. A considerare le notizie riferite dai media che maggiormente seguono questi problemi, sorge più di un sospetto. E sicuramente questo non è accaduto per il Mekong.
Lo rivela lo studio  intitolato “Miglioramento dei compromessi tra energia idroelettrica e connettività delle sabbie grazie alla pianificazione strategica delle dighe nel Mekong”, che è stato realizzato da studiosi delle Università di Stanford e della California negli Stati Uniti e del Politecnico di Milano nel 2017 e pubblicato nel 2018 da Nature Sustainability.
La ricerca ha focalizzato l’attenzione su tre affluenti del Mekong con l’obiettivo di analizzare l’impatto della costruzione di diverse dighe sul trasporto di sedimenti e sull’ecosistema.
L’ abstract della pubblicazione spiega: “Le dighe nel bacino del Mekong sono per lo più pianificate progetto per progetto e senza un’analisi strategica dei loro impatti cumulativi sui processi fluviali come la connettività dei sedimenti. Analizziamo le opportunità mancate e future per ridurre gli impatti dell’energia idroelettrica sulla connettività dei sedimenti attraverso una pianificazione strategica delle dighe negli affluenti Se Kong, Se San e Sre Pok (‘3S’) del basso Mekong, che sono criticamente importanti come fonte di sabbia per il Delta del Mekong. Con una pianificazione strategica, il 68% del potenziale idroelettrico del bacino 3S avrebbe potuto essere sviluppato intrappolando il 21% del carico di sabbia del bacino. L’attuale portafoglio di dighe risultante dalla pianificazione progetto per progetto usa il 54% del potenziale idroelettrico mentre intrappola il 91% del carico di sabbia. I risultati del 3S dimostrano che la pianificazione strategica su scala di rete è cruciale per lo sviluppo dell’energia idroelettrica a basso impatto, una scoperta rilevante date le almeno 3.700 grandi dighe che sono proposte in tutto il mondo.”

Anche il Vietnam sembra avere preso coscienza del problema. Lo riferisce ilcaffègeopolitico.net  citando uno studio condotto sotto la supervisione del Ministero dell’Industria e del Commercio vietnamita, che ha analizzato sia l’efficienza sia l’impatto ambientale di una politica di costruzione non coordinata. A fine del 2016, il Governo ha riconsiderato le quote di produzione idroelettrica, fermando o ridimensionando diversi progetti

il Mekong e le sue dighe sul mainstream, funzionanti e progettate, al 2019

Oggi l’intero bacino del Mekong è al centro di uno scontro, per il momento incruento, tra la conservazione dell’ambiente e le necessità dell’industrializzazione.
Nel 1995 venne costituita la Mekong River Commission (MRC); un organismo sovrannazionale che comprende Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar, Vietnam e lascia fuori la Cina. La sua funzione doveva essere quella di coordinare l’attività di costruzione degli sbarramenti sul corso principale del fiume, mentre gli affluenti erano lasciati alla discrezione dei singoli Paesi.
La sua nascita soffriva, però, di un peccato d’origine: i singoli progetti dovevano essere, e tuttora lo sono, sottoposti a una consultazione preventiva in modo da avere il consenso generale dei paesi membri, da ottenersi all’unanimità; nello stesso tempo, la Commissione non ha alcun diritto di veto definitivo sui progetti presentati. D’altra parte, secondo quanto riporta il Post.it – in una pubblicazione del 10 novembre 2019 –, “la sua rilevanza è stata offuscata negli ultimi anni dalla Lancang-Mekong Cooperation Framework, un’organizzazione analoga fondata dalla Cina nel 2015”.
Questo meccanismo non ha impedito che, sia negli affluenti che nel corso principale, ogni Paese facesse e faccia per sé; per non parlare, appunto, della Cina che, essendo fuori della Commissione, ha sempre avuto buon gioco nelle sue decisioni.

.Quante, dove
La “fame” di energia, sempre crescente in tutto il mondo, ha spinto anche i governi di quest’area verso l’utilizzo di impianti idroelettrici che, seppure richiedano  ingenti capitali per la creazione degli sbarramenti fluviali, hanno il vantaggio di un costo di gestione molto basso, sia per la materia prima utilizzata (l’acqua) che per la manutenzione della struttura.
Difficile orientarsi sul reale numero di sbarramenti realizzati, in costruzione e in progetto: non tutte le fonti sono concordi sui dati; per questo motivo, e per il solo corso principale del fiume, ci riferiamo ai dati ufficiali che la MRC riporta sul suo database : un’arida contabilità segna che entro il 2040 gli impianti completati saranno una quarantina .
Per quanto concerne i tributari del Mekong, non possiamo ignorare le parole di Tang Quốc Chính direttore del Department of Disaster Safety Control del Vietnam il quale, intervistato da Asianews il 13 aprile 2021, ha dichiarato che “sugli affluenti del fiume Mekong sono stati costruiti o sono in costruzione 142 bacini per l’energia idroelettrica”.

Con circa 182 istallazioni, cosa ne sarà del grande delta nel 2040? E lungo il corso, quale vita acquatica e umana sopravvivrà?  Altre domande angoscianti si porrebbero ….

Bacino inferiore del Mekong
Nel1960 la Thailandia, prima fra tutti, iniziò la costruzione di alcune dighe, nel nord e nel nord-est del Paese, tutte sui pochi affluenti thailandesi, con l’obiettivo di avviare un processo di industrializzazione. Contemporaneamente si registrarono anche le prime proteste delle locali popolazioni rurali, che hanno perso le case e i terreni senza ricevere adeguati compensi. Fu il preludio di quello che sarebbe successo negli anni successivi.
Del Vietnam si è parlato in precedenza; c’è da notare, in ogni caso, che alcune fonti non ufficiali, segnalano che sul suo territorio è presente un numero significativo di dighe, tutte sui numerosi affluenti del Mekong e, quasi tutte, di piccola e media potenza.
I Paesi del bacino inferiore non sono rimasti estranei al corso principale: attualmente nel mainstream, sono previsti 9 progetti, di cui sette in Laos – quattro sono stati notificati all’MRC per il processo di consultazione preventiva, i rimanenti 3 sono ancora in fase progettuale -, e 2 attraverso il confine Lao-Thailandese, che risultano essere già in attività.

Bacino superiore del Mekong
La Cina, nel corso principale, dal 1993 al 2018 ha costruito 11 grandi dighe e ha pianificato la successiva costruzione di altre 11 entro il 2040, una delle quali in corso di realizzazione. Una stima, in megawatt, della potenza elettrica istallata al 2040 vede la Cina con il 50% di tutta la potenza del l’intero bacino idrografico. Il dato richiama alla mente un verso della poesia di Fedro Il lupo e l’agnello: “… superior stabat lupus, longeque inferior agnus… “. La Repubblica popolare cinese è indubbiamente consapevole della totale capacità di poter controllare il corso dell’acqua verso il bacino inferiore causando così ingenti complicazioni economiche e ambientali nei paesi nei quali esso scorre.
La sudditanza al grande paese e la sua “prepotenza” economica ha suscitato e sta suscitando, tra i Paesi a valle, malumori e risentimenti spesso manifesti; c’è chi parla, a tale proposito, di rischio di “guerra per l’acqua”. Tuttavia, il Paese del Dragone, molto attento agli umori dei vicini, non ha alcun interesse a mettere a rischio i suoi progetti nell’area indo-cinese, tra i quali ha importanza strategica la costruzione della “Via della Seta” nell’area.
Ha deciso, di conseguenza, pur non entrando nella Mekong River Commission, di attuare un regime di collaborazione con gli “altri cinque”.
Riuscirà nell’impresa di “salvare capra e cavoli” ed evitare pericolose scaramucce di frontiera? C’è da pensare di sì, visto che la sua sottile capacità diplomatica è riuscita, per centinaia d’anni, a mantenere il Paese lontano da guerre di aggressione verso terzi.

(Parte quarta, continua)
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Note:
Foto d’apertura – il Mekong alla confluenza con il Ruak
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Nella quinta parte del nostro cammino indagheremo su ciò che succede dalle parti del Nilo, dove  Egitto ed Etiopia sembrano essere ai ferri corti
 
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