Diritto al cibo – parte prima

 

Gabriella Carlon
16-12-2022
Anche se solitamente non viene incluso tra i diritti sociali in modo esplicito, il diritto al cibo, e all’acqua, dovrebbe essere prioritario su qualunque altro, perché indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi essere umano. Nella nostra Costituzione viene adombrato indirettamente all’art. 36; alcuni paesi (es. Ecuador e Bolivia) lo hanno inserito esplicitamente in Costituzione. Nella Dichiarazione universale dei diritti umani viene citato all’art. 25. (1)
Recentemente se ne è parlato a proposito delle navi cariche di cereali bloccate nel porto di Odessa: fortunatamente, nonostante la guerra, pare che la questione si risolva.
Ma il problema dell’accesso al cibo, cioè della fame, è nel mondo tutt’altro che risolto, anzi si sta aggravando. Il 6 luglio 2022 è stato pubblicato il Rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione (SOFI) elaborato dal lavoro congiunto di FAO – UNICEF – OMS -World Food Program.
Secondo tale fonte, nel 2021 la fame ha colpito 828 milioni di persone; il valore percentuale si è mantenuto invariato dal 2015 al 2019 intorno all’8%, ma nel 2020 è passato al 9,3% e nel 2021 al 9,8%. Il Rapporto sostiene che la difficoltà sta nell’accesso al cibo, non nella disponibilità di esso. (2)
Infatti, come spesso denunciato, e in particolare anche nel Protocollo di Milano (documento elaborato a seguito dell’Expo 2015 che aveva come slogan Nutrire il pianeta – Energia per la vita), circa il 33% del cibo prodotto viene gettato via. Si tratta dunque, in primo luogo, di combattere lo spreco, aspetto su cui il Protocollo insiste particolarmente.
Però bisogna anche capire le cause di una distribuzione così diseguale e iniqua. Il Protocollo citato aveva cercato di affrontare il problema della sicurezza alimentare e su tale argomento si sono sviluppati incontri e dibattiti interessanti, che hanno avuto il merito di coinvolgere l’opinione pubblica.  Ma l’Expo era evidentemente in bilico tra il problema della fame nel mondo e la vetrina delle multinazionali del cibo.
Purtroppo l’obiettivo dell’Agenda ONU di dimezzare il numero degli affamati entro il 2015 non è stato raggiunto; l’obiettivo è stato spostato al 2030. La “rivoluzione verde” ha rappresentato, negli ultimi decenni del ‘900, un notevole sforzo per combattere la fame, ma non ha raggiunto lo scopo, perché la produzione è aumentata ma non è servita a sfamare i più poveri. Si è anche ritenuto che, vista l’abbondanza di cibo esistente, si dovesse liberalizzarne la circolazione, pensando che il mercato avrebbe provveduto a garantire la sicurezza alimentare a tutto il pianeta. Ma non si è verificato, anche perché l’Occidente, che detta le regole, mira a produrre per l’esportazione piuttosto che per l’alimentazione dei più poveri perfino quando coltiva i prodotti nei paesi dove esistono moltitudini di persone che soffrono la fame.
Diversi fattori ostacolano l’accesso al cibo mantenendo i prezzi degli alimenti di base troppo alti. Il primo è che il cibo, con il meccanismo dei titoli futures unito a quello dei derivati, è diventato oggetto di speculazione in Borsa al pari di altre materie prime. Fin dal 2011 il Parlamento europeo ha approvato il Rapporto della socialdemocratica Daciana Octavia Sarbu, che avanzava proposte per una revisione degli strumenti finanziari volti alla speculazione sulle materie agricole, ma non se ne è fatto nulla. Allo stesso modo è caduta nel vuoto la proposta di creare scorte alimentari a livello mondiale da utilizzare per regolare il prezzo dei prodotti. La questione si pone oggi in maniera ancor più drammatica a causa del cambiamento climatico che desertifica alcune zone del pianeta e provoca spaventose siccità.
Un secondo fattore è che la spinta a produrre energia verde incrementa la produzione di agrocombustibili (mais, olio di palma, canna da zucchero, patate) in varie zone del pianeta (USA, America centrale, Brasile, Africa subsahariana, Indonesia). Questa nuova ondata di monocolture non solo ha un impatto negativo sull’ambiente, ma priva i contadini piccoli proprietari del terreno necessario alla sopravvivenza.
A ciò si aggiunga che, dal primo decennio del XXI secolo, si è diffuso il land grabbing (accaparramento di terre) (3) che colpisce soprattutto l’Africa, pratica per cui vaste zone agricole vengono date in concessione, anche per 99 anni!, a paesi esteri. Ne consegue l’espulsione dei contadini, che ovviamente, viste le tradizioni locali, non riescono a dimostrare titoli di proprietà della terra.
Da ultimo va osservato che la politica agricola occidentale pratica un vero e proprio dumping, sovvenzionando l’agricoltura per favorire l’esportazione: si calcola in 630 miliardi annui la somma che viene erogata agli agricoltori da USA e UE, con grave danno per i piccoli proprietari, soprattutto del Sud del mondo, che non possono reggere la concorrenza.
Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno sostenuto a lungo il modello produttivistico di agricoltura industriale, favorendo, anche nel Sud del mondo, la diffusione della monocoltura e la produzione per l’esportazione. Oggi però, visto che questo modello di agricoltura non risolve il problema della sicurezza alimentare, soprattutto nei paesi più poveri, gli organismi dell’ONU preposti al cibo, come la FAO, e allo sviluppo rurale si sono orientati verso un altro modello di agricoltura, alternativo a quello industriale, che assicuri non solo la sicurezza, ma anche la sovranità alimentare.
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Per leggereDiritto al cibo – parte seconda  (clicca)
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Note

1) Per un’analisi approfondita dal punto di vista giuridico:
Rivista Ambiente Diritto    (pp. 485-510)

2)    Rapporto Onu

3) Per dati specifici sui diversi paesi:
Treccani.it

Immagine di copertina da:   laleggepertutti.it

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