INDIPENDENZA per l’Africa, ma quando una reale AUTODETERMINAZIONE?

Giulia Uberti
29-05-2023
Sono più di sessanta anni da quando numerosi Paesi dell’ Africa hanno ottenuto l’indipendenza. Sul piano della storia si è passati a un cambiamento d’epoca, da un’Africa a lungo colonizzata e dominata da attori stranieri a un’Africa composta da stati (in teoria) indipendenti e sovrani. I cambiamenti e gli obiettivi raggiunti in questi anni sono numerosi, ma molta strada rimane ancora da percorrere per arrivare a una vera indipendenza e a una reale sovranità dei suoi diversi Stati.

Diverse convenzioni internazionali sono intervenute a sancire il diritto di autodeterminazione dei popoli. Tra questi vi è il Patto internazionale sui diritti civili e politici stipulato in ambito ONU, nel 1966. L’Italia lo ha recepito con la legge n.881 del 1977. Il principio di base sancisce che: “i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale”.

Tuttavia i singoli Paesi vivono una storia diversa. Un esempio: la Repubblica Democratica del Congo, ricca per l’abbondanza delle risorse minerarie che possiede sia sul suolo che nel sottosuolo. Tra questi ci sono diamanti, oro, rame, e soprattutto cobalto – indispensabile per le batterie delle autovetture elettriche -, e coltan, necessario per qualsiasi strumento elettronico; ma anche legnami pregiati, territori che conservano una rilevante biodiversità e una notevole vastità di terre coltivabili. Ma una simile ricchezza non si riversa minimamente sulla popolazione, che vive di fatto in estrema povertà. Infatti ben il 70% dei congolesi vive sotto la soglia di povertà, una persona su tre soffre di fame acuta e l’aspettativa di vita al momento della nascita si aggira intorno a 59 anni per gli uomini e 61 per le donne. Ci si chiede perché? Dove sta il problema?

Nel maggio del 2022 il Dipartimento della Giustizia statunitense ha avviato un procedimento per aver appurato che Glencore (1), multinazionale che gestisce otto miniere di rame e cobalto in Ka-tanga, fra il 2007 e il 2018 ha pagato 27,5 milioni di dollari in mazzette a funzionari della Repubblica Democratica del Congo, per ottenere vantaggi economici illeciti dalla propria attività in quel Paese. Secondo l’Onu la corruzione è un mostro che a livello mondiale divora il 25% delle entrate pubbliche. Viene anche calcolato che nelle nazioni africane (che hanno i più alti livelli di corruzione) i governi spendono il 25% in meno in sanità e il 58% in meno in istruzione.
Questo aiuta a capire perché, nonostante le sue enormi ricchezze, la Repubblica Democratica del Congo sia uno dei cinque Paesi più poveri al mondo. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, la popolazione congolese dispone meno di 2,15 dollari al giorno; una dimostrazione concreta di come l’estrazione dei minerali serva ad arricchire pochi e si trasformi di fatto in una maledizione per la popolazione.

Papa Francesco il primo febbraio del 2023, al secondo giorno della sua visita in Congo, ha lanciato un appello: “Rivolgo un vibrante appello a tutte le persone, a tutte le entità interne ed esterne che tirano i fili della guerra nella RDC, saccheggiandola, fustigandola e destabilizzandola.” Si é detto «indignato» per lo sfruttamento, cruento e illegale, della ricchezza del Paese, dove la violenza dei gruppi armati ha ucciso centinaia di migliaia di persone e gettato sulla strada milioni di altri.
Malgrado l’impegno dei movimenti di decolonizzazione, «gli interessi economici» occidentali hanno finito per imporsi nella politica africana. Tuttavia in tempi attuali, il rifiuto dell’Africa di allinearsi sulla nuova guerra fredda lascia pensare che un altro mondo è possibile.

Alla conferenza di Munich sulla sicurezza, tenutasi lo scorso febbraio, Saara Kuugongelwa-Amadhila (2), economista formatasi negli Stati Uniti e primo ministro della Namibia in carica dal da marzo 2015, si è astenuta nella votazione riguardante la condanna della Russia per la guerra in Ucraina. In seguito ha precisato la sua scelta dicendo: «Noi incoraggiamo una risoluzione pacifica di questo conflitto perché il mondo intero e tutte le sue risorse possano concentrarsi sul miglioramento delle condizioni di vita delle persone nel mondo, anziché servire all’acquisto delle armi, a uccidere le persone e a provocare sempre più numerose ostilità. I soldi consacrati agli armamenti – ha continuato – potrebbero servire per promuovere lo sviluppo in Ucraina, in Africa, in Asia, e in altre regioni, nella stessa Europa, dove sono numerose le persone che conoscono difficoltà».
Questo punto di vista è oggetto di un ampio consenso nel continente africano. A settembre scorso Macky Sall, presidente del Senegal e dell’Unione africana, ha parlato di una soluzione negoziata rilevando che l’Africa soffriva degli effetti dell’inflazione indotti dalle sanzioni, mentre veniva trascinata nel conflitto dagli Usa. “L’Africa ha pagato un prezzo abbastanza alto alla storia e non vuole essere il terreno fertile per una nuova guerra fredda, ma piuttosto un polo di stabilità e opportunità aperto a tutti i suoi partner ”, ha dichiarato.
Sono noti i tributi dell’Africa alla storia: la schiavitù, gli orrori del colonialismo, l’apartheid, la creazione di uno stato di crisi del debito permanente causato dalle condizioni imposte dalle strutture finanziarie neocoloniali, tuttora attuate (o gestite in toto) dalle potenze coloniali anche dopo l’avvenuta indipendenza. Infatti, mentre le nazioni europee si arricchivano e stimolavano il proprio progresso industriale, il colonialismo ha ridotto il continente africano a un ruolo di fornitore di materie prime e consumatore di prodotti finiti importati. Il debito estero totale dell’Africa sub sahariana entro la fine del 2022, ha raggiunto la cifra record di 789 miliardi di dollari: il doppio rispetto a dieci anni fa e il 60% del prodotto interno lordo del continente.

Nel secolo scorso, i principali critici di questa dinamica coloniale furono Kwame Nkrumah in Ghana e Walter Rodney (3), Lumumba in Congo e Thomas Sankara in Burkina Faso: voci messe a tacere con colpi di stato sostenuti dall’Occidente. Pochi gli intellettuali contemporanei che valorizzano e sviluppano la loro eredità culturale, senza la quale manca il discernimento per capire meglio i concetti di fondo e per analizzare temi come: “aggiustamento strutturale”, “liberalizzazione”, “lotta alla corruzione”, “buon governo”. Concetti e valori imposti dalle istituzioni occidentali alle realtà africane.
Tuttavia dalle dichiarazioni di Sall e Kuugongelwa-Amadhila emerge che le recenti crisi congiunturali (la pandemia di Covid, la guerra in Ucraina, l’aumento delle tensioni con la Cina) stanno evidenziando il crescente divario politico tra Stati occidentali e africani. Mentre i primi si precipitano in un conflitto tra grandi potenze con terrificanti interessi e nessuna remora per l’uso di armi nucleari, i secondi temono che questi passi verso la guerra indebolirà ulteriormente le loro prospettive di sviluppo.

Dagli Stati Uniti… una risposta
L’Africa subsahariana rappresentava uno scenario secondario per gli Stati Uniti, pur nell’alternanza di governi repubblicani e democratici. La Casa Bianca in passato non ha quasi mai avuto una“politica per l’Africa”. Per anni il mantra americano è stato “non aiuti ma commercio”. Tutto cambia con la presidenza di Joe Biden, che vuole riportare l’Africa al centro del mappamondo americano. Il secondo vertice Usa-Africa, dopo quello del 2014 organizzato da Barack Obama, si è tenuto a Washington dal 13 al 15 dicembre scorso. Oggi lo scambio commerciale tra Usa e l’Africa è di 64,3 miliardi, che rappresenta solo l’1% del commercio della Cina con i Paesi africani, che è 4 volte superiore (254 miliardi di dollari).
Il rapporto Stati Uniti e Africa non riguarda solo l’aspetto commerciale: c’è anche un deficit diplomatico, come dimostrano i molti posti lasciati scoperti nelle ambasciate del continente. Oggi l’amministrazione Biden propone una associazione tecnologica e militare, ma è chiaro il suo intento di dare battaglia ai suoi principali avversari: Russia e Cina.

Nel 2022 gli Usa hanno pubblicato un documento strategico per rendere noto il proprio approccio all’Africa subsahariana. Il documento descrive gli investimenti statunitensi come di “alto livello, orientati a valori, e trasparenti”, mentre parla degli investimenti della Cina come di un tentativo di sfidare l’ordine internazionale, con regole che promuovono i propri interessi commerciali e geopolitici e che puntano a indebolire il rapporto degli Usa con i popoli africani. Per contrastare queste “attività dannose”, gli Stati Uniti sperano oggi di spostare il confronto dal commercio competitivo e dalle iniziative di sviluppo, dove la Cina ha un vantaggio, al militarismo e alla guerra dell’informazione, dove l’America continua ad avere il primato. Non a caso gli Usa hanno istituito lo United States Africa Command (AFRICOM), attivo dal 2008, e nei successivi 15 anni ha costruito 29 basi militari nel continente, parte di una rete che copre almeno 34 paesi. Tra gli obiettivi dichiarati di AFRICOM ci sono uffici di collegamento con gli eserciti africani che rappresentano il principale meccanismo per rafforzare l’autorità degli Usa rispetto all’influenza della Cina.
Il generale Stephen Townsend di AFRICOM ha scritto che gli Usa “non possono più permettersi di sottovalutare le opportunità economiche e le conseguenze strategiche che l’Africa incarna e che concorrenti come la Cina e la Russia riconoscono.”

Pertanto si attiva sul continente una campagna di propaganda. Il COMPETES Act,(testo legislativo volto ad affrontare i problemi di approvvigionamento per mantenere competitiva l’economia degli Stati Uniti) approvato dal Senato nel marzo del 2022, fornisce 500 milioni di dollari all’Agenzia Usa per i media globali, come strumento per contrastare la “disinformazione” della RPC. Pochi mesi dopo, in Zimbabwe iniziarono a circolare notizie secondo cui l’ambasciata degli Stati Uniti aveva finanziato seminari educativi che incoraggiavano i giornalisti a prendere di mira e criticare gli investimenti cinesi. L’organizzazione locale coinvolta nei programmi è finanziata dall’Information for Development Trust, a sua volta finanziato dal National Endowment for Development del governo statunitense.

Un tentativo di “ Nuovo Ordine Mondiale”?
Il 25 maggio del 1963 l’imperatore etiope Haile Selassie convocò ad Addis Abebba una riunione cui parteciparono 32 stati africani da poco liberatisi dal dominio coloniale e là si decise di dare vita all’Organizzazione per l’Unità africana (Oua), con sede ad Addis Abeba, che quest’anno compirà 60 anni. Al momento della fondazione, Nkrumah avvertì i leader che per raggiungere l’integrazione economica e la stabilità, l’organizzazione avrebbe dovuto essere esplicitamente politica, motivata da un chiaro e coerente antimperialismo. “L’unità africana”, spiegava, “è prima di tutto un ambito politico che può essere raggiunto solo attraverso mezzi politici. Lo sviluppo sociale ed economico dell’Africa avverrà solo all’interno della sfera politica, non viceversa. Eppure, nonostante gli sforzi dei movimenti di decolonizzazione, gli interessi economici (principalmente quelli delle multinazionali occidentali e dei loro sostenitori statali) finirono per avere la precedenza sulla politica. Questo ha svuotato l’unità africana della sua sostanza, e con essa la sovranità e la dignità dei popoli africani” .
Dalla fine degli anni 1990 il mutamento degli equilibri internazionali dovuti alla fine della guerra fredda ha acuito la marginalità politica ed economica dell’Africa, evidenziando così i suoi limiti, da cui è sorta la necessità di una riorganizzazione. Venne quindi indetta una riunione straordinaria dell’Oua, tenutasi a Sirte, in Libia, nel novembre 1999, e fu presa la decisione di istituire l’Unione Africana (UA) la cui Carta costitutiva venne ratificata al vertice di Lomé il 12 luglio 2000. Un ruolo centrale nella creazione del nuovo organismo lo svolsero il Sud-Africa di Thabo Mbeki, la Nigeria di Olusegun Obbasanjo e la Libia di Muammar al-Ghaddafi, che intendevano rendere l’Africa più incisiva sia sulla scena internazionale sia nelle vicende interne del continente. Attualmente l’UA ripresenta alcuni limiti dell’ Oua, certamente, ma è anche vero che ha contribuito a ridisegnare il panorama politico ed economico dell’Africa.
Nonostante alcuni nobili tentativi, come la risoluzione del 2016 per vietare le basi militari straniere, l’Unione Africana finora non è riuscita a liberarsi dai vincoli neocoloniali. Eppure il rifiuto del continente di allinearsi alla nuova guerra fredda (attraverso i suoi appelli ai negoziati di pace in Ucraina, la sua riconfigurazione dei partner internazionali) suggerisce che un altro ordine mondiale si intravede. La presenza dei giovani ha una sua influenza, ci fa intuire che il nuovo orienta e avanza. La marginalizzazione politica, economica e sociale dei giovani e l’aumento del costo della vita sono alcuni dei fattori che tendenzialmente hanno alimentato i movimenti di protesta giovanili nel continente africano nell’ultimo biennio. Il disagio vissuto dalle fasce più giovani della popolazione ha trovato nei social media un’efficace cassa di risonanza, elemento che ha contribuito in misura significativa alla costituzione di movimenti di protesta strutturati. I giovani attualmente utilizzano i social per comunicare: l’Africa non deve più nulla all’“Occidente unito”.
La guerra in Ucraina sta contribuendo, di nuovo, a dividere il continente in due blocchi, uno allineato alle posizioni “occidentali” ed uno allineato a Russia e Cina. Indipendentemente dalle posizioni dei governi, la popolazione di molti paesi, anche fra quelli “allineati” all’occidente, sembra più incline a condannare l’ipocrisia e il “doppiopesismo” degli Stati Uniti e dell’Europa che a condividerne le posizioni. Il trattamento molto diverso riservato ad Ucraini ed Africani in fuga dall’Ucraina, il dirottamento di fondi dagli aiuti allo sviluppo ad aiuti, militari e non, all’Ucraina, l’attenzione per questa guerra paragonata all’indifferenza per i numerosi conflitti sul continente, sono tutti fattori, fondati, che favoriscono lo scetticismo della popolazione di molti paesi Africani nei confronti dell’ “Occidente”. Inoltre, è ancora molto vivo il ricordo dell’appoggio dell’Unione Sovietica a molte guerre di liberazione dal colonialismo. Non a caso, Lavrov ha recentemente affermato che la Russia aiuterà l’Africa a “completare il processo di decolonizzazione”. L’Africa Day continua a essere celebrato sia in Africa che in tutto il mondo, principalmente il 25 maggio, data della prima conferenza nel 1963. In alcune parti del continente e del mondo i festeggiamenti vengono protratti per periodi più lunghi, a seconda del programma deciso per ogni anno.
Oggi, per molti africani, l’Africa Day è un giorno in cui persone di diverse culture e differenti provenienze si uniscono per celebrare le diversità dell’Africa e per ricordare gli obiettivi fondanti e gli sforzi fatti dall’Unione Africana per raggiungere l’indipendenza, la libertà e l’unità del continente.
Sembra arrivato il tempo di cambiare anche opinioni fra africani e occidentali. Sentimenti che si possono interpretare in particolare nei confronti della Francia e dei paesi francofoni, obiettivo più marcato, ma anche verso o contro l’U.E., gli Stati Uniti e il Sud Africa. C’è una grande insoddisfazione sul predominio occidentale. Perché adesso? Quali sono i fattori che provocano queste reazioni? Il sentimento è guidato dai giovani, oggi più istruiti, che utilizzano i media e diffondono conoscenza e consapevolezza sulle ragioni del diffuso senso di frustrazione. Il numero dei poveri è cresciuto, è aumentata la povertà e le condizioni di vita sono peggiorate. In Africa sono raddoppiate le aree di conflitto, è aumentato il numero dei morti e degli sfollati interni ed esterni. E’ deteriorata la sicurezza. Dal 1993 al 2019 la disponibilità giornaliera è diminuita deteriorando peggiori condizioni di vita. Nasce nei giovani il desiderio di diversificare i partner esterni e li si vuole scegliere. La Cina è l’alternativa all’Occidente. La politica cinese, agli occhi di molti, rappresenta la non ingerenza, il sostegno alla fratellanza per difendersi dal colonialismo di tipo occidentale.
Nel 2008 l’ex presidente del Senegal, Abdoulaye Wade scrisse: “l’approccio cinese è semplicemente più adatto alle nostre esigenze rispetto al lento e talvolta accondiscendente approccio post-coloniale di investitori europei, enti di beneficenza e organizzazioni non governative”. La penetrazione della Cina e della Russia in Africa ha compromesso gli interessi dell’Occidente in quest’area. Oggi si assiste a una presenza militare russa nel Corno d’Africa, nel Sahel e in Centrafrica. I mercenari della Wagner hanno sostituito i soldati francesi in Mali. Ma per l’Europa e gli Usa la cosa più insidiosa è la penetrazione economica cinese nel continente. Le potenze coloniali occidentali cercano in ogni modo di impedire ai paesi nemici come Russia e Cina di costruire rapporti di stretta collaborazione con i governi africani.

Scelta dei Partner
I Paesi africani che avevano aderito al Forum di cooperazione Cina-Africa (FOCAC) nel 2021 per progettare relazioni commerciali e diplomatiche erano 53. Negli ultimi decenni il commercio bilaterale è aumentato ogni anno: da 10 miliardi di dollari nel 2000 a 254 miliardi di dollari nel 2021. La Cina è diventata il principale partner commerciale.
All’ottava conferenza FOCAC, la Cina ha annunciato che avrebbe importato 300 miliardi di dollari di manufatti dai paesi africani entro il 2025 e avrebbe aumentato il commercio senza dazi, rinunciando successivamente ai dazi doganali sul 98% dei prodotti tassabili dalle dodici nazioni africane meno sviluppate.
L’eredità del colonialismo significa che il commercio estero dell’Africa è ancora largamente finanziato dal debito; le sue esportazioni sono costituite principalmente da materie prime grezze, mentre le sue importazioni sono costituite principalmente da prodotti finiti. Gli investimenti cinesi in Africa sono guidati dal desiderio di rafforzare il proprio ruolo nella catena globale del commercio e da imperativi politici. Tra questi, la necessità di garantirsi il sostegno africano alle posizioni cinesi di politica estera.
Tuttavia la Francia sta attualmente mobilitando i suoi partner africani per un prossimo summit a Parigi: una conferenza che si terrà dal 22 al 23 giugno 2023, il cui obiettivo è quello di stabilire un nuovo patto finanziario mondiale in favore dei Paesi più vulnerabili.
Come e quando l’Africa riuscirà a liberarsi dai molteplici interessi stranieri per arrivare ad autodeterminarsi?
__________________________________________________________________________
Note:
Immagine di apertura: un seggio per votare alle elezioni presidenziali in Nigeria (Maggio 2023)

(1) Glencore – Società mineraria e di scambio merci multinazionale anglo-svizzera con sede a Baar in Svizzera. Fondata nel 1974 da Marc Rich & Co AG.
(2 )Walter Rodney è uno storico e politico guyanese. È noto per le sue posizioni anti-colonialiste e per la sua dura critica della condotta delle nazioni europee nei confronti delle colonie africane e americane, ed è considerato uno dei padri del panafricanismo.
(3)Mikaela Erskog insegnante e ricercatrice sud-africana, lavora in stretta collaborazione con i programmi educativi del sindacato nazionale dei metallurgici dell’Africa del Sud ( (National Union of Metalworkers of South Africa ou NUMSA).

Link utili:
70-anni fa la dichiarazione universale dei diritti umani
Un passato da cui fuggire? Il Congo tra colonialismo e guerre civili
L’Africa e la guerra in Ucraina
L’Africa Day, il giorno della libertà e dell’unità
___________________________________________________________________________

Disclaimer   (clicca per leggere – puoi rivendicare diritti di proprietà su riferimenti e immagini)

Mondo