Libertà di pensiero … solo al bar?

Gabriella Carlon
29-09-2023

Secondo i sondaggi, la maggioranza degli Italiani sarebbe contraria all’invio di armi in Ucraina, mentre il Governo agisce in modo opposto. La posizione del Governo è comunque legittima; molto meno accettabile è il dibattito pubblico, dove trova pochissimo spazio chi si discosti dalla linea governativa.
Eppure l’art. 21 della Costituzione garantisce libertà di espressione del proprio pensiero con ogni mezzo. Ciò induce a qualche riflessione: certo siamo liberi di manifestare il nostro pensiero chiacchierando con gli amici (ed è certo un fatto positivo), ma è chiaro che, nell’esercizio del diritto, esistono profonde diseguaglianze tra chi ha la proprietà di un giornale o di una TV e il comune cittadino che non possiede alcun mezzo di diffusione delle proprie idee. L’accesso a Internet sembrerebbe aver “democratizzato” la fruizione di questo diritto, ma in realtà anche l’uso dei siti richiede, per una diffusione capillare dei contenuti, soldi ed energie. Infatti in rete l’eccessivo numero di siti e la priorità data a quelli che pagano per la propria visibilità, rende quasi invisibili le fonti che riportano pareri fuori dal coro e molto impegnativa la ricerca e il confronto di notizie e commenti di buon livello.
Di fatto, per entrare nell’agorà del dibattito pubblico, dove si dovrebbero confrontare le diverse posizioni al fine di creare un’opinione pubblica ben formata, è necessario accedere a qualche mezzo di comunicazione di massa, che permetta di oltrepassare l’ambito della comunicazione privata. Non a caso assistiamo a una vera lotta tra potentati economici per il controllo della stampa e dei motori di ricerca a livello internazionale. (1) Il problema va a incrociarsi con il diritto all’informazione, che è l’altra faccia dell’art. 21, come già visto in un precedente articolo. Il diritto alla libertà di pensiero si rivela dunque, per il comune cittadino, puramente formale.

Quali strade possono renderlo meno formale, per permettere a tutti di riflettere con cognizione di causa e di concorrere al pubblico dibattito?
Una prima via è quella di dare rappresentatività al proprio pensiero aderendo a partiti o associazioni che possano far sentire la loro voce a livello nazionale. Un’altra via sarebbe quella di istituire un ente di servizio pubblico (es. la RAI) che abbia come fine istituzionale di diffondere adeguata conoscenza sia dei fatti sia delle diverse opinioni, metodologicamente ben fondate, che circolano all’interno della società. Ovviamente l’oggettività assoluta è impossibile, ma la pluralità dei punti di vista, purché ben documentati, può contribuire a formare un’opinione pubblica consapevole.
Entrambe queste vie mi sembrano attualmente difficili da percorrere. La prima perché i partiti sono ormai solo comitati elettorali; le associazioni appaiono sempre meno influenti e soprattutto il mondo della cultura, a cominciare dalle Università e dalla scuola, è sempre meno portatore di pensiero critico e di impegno civico, sempre più focalizzato su un sapere specialistico e parcellizzato. La seconda via sembra impraticabile perché in realtà il concetto di servizio pubblico della RAI è sempre stato proclamato ma mai del tutto attuato. Si è passati da una discutibile lottizzazione da parte dei partiti a una dipendenza stretta dall’Esecutivo, in un generale processo di accaparramento di tutti gli spazi di potere da parte del Governo. Manca, infatti, la distinzione tra ambito istituzionale, che dovrebbe fornire un servizio rivolto a tutti i cittadini, e potere partitico, che rappresenta una parte di essi.

Ecco perché la libertà di pensiero, come diritto individuale, è di fatto inagibile per la maggior parte dei cittadini.

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Nota
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