Eraldo Rollando
10-01-2021
Dalle baraccopoli africane agli slums dei sobborghi indiani, stanno proliferando piccole imprese che riciclano il piombo delle batterie per auto. In Africa la maxi discarica del mondo continua a uccidere, in silenzio e nel silenzio: 500milioni di bambini, i più vulnerabili all’avvelenamento, vivono in ambienti dove aria e acqua sono particolarmente inquinati; dal 1990 al 2017 le morti provocate da agenti inquinanti sono passate da 164mila a 258mila con un incremento del 57%.
Ogni tanto, però, si accende qualche barlume di speranza.
“L’economia circolare” è ormai una necessità, in un mondo che produce più rifiuti di quanti l’ecosistema ne può sopportare, complice la crescita smisurata della popolazione mondiale.
Recupero, riuso, riciclo sono termini entrati ormai nel lessico comune.
“L’Italia è uno dei Paesi più virtuosi d’Europa nel dare nuova vita agli oggetti e questo potrebbe rivelarsi un asset fondamentale per il Paese. Solo Olanda, Francia, Belgio e Lussemburgo fanno meglio secondo l’indice del riutilizzo dei materiali di Eurostat. Nel 2018, con una maggiore propensione al Nord rispetto al Sud, il 50 per cento dei rifiuti solidi urbani è stato recuperato o smaltito biologicamente, il 22 per cento è finito in discarica e un altro 22 incenerito. Tra i materiali più riciclati ci sono organici, carta, vetro, plastica e legno.” (sito eni.com/it)
Buoni risultati si stanno ottenendo anche nel comparto dei materiali industriali con il loro recupero e trasformazione in “materie prime seconde” da reimpiegare nel ciclo produttivo.
Ciò vale anche per il recupero delle batterie al piombo – acido esauste, il cui processo sottostà a una normativa particolarmente stringente.
Noi siamo ormai portati a pensare che il riciclaggio sia una cosa buona e pura, ma così non è, se lo stesso non è realizzato nel rispetto di procedure sicure.
In altre parti del mondo come Cina, Vietnam, Filippine, Repubblica Dominicana e,segnatamente in Africa, il recupero delle batterie non è attuato con la stessa prudenza che di norma trova impiego nei paesi più attenti alla tutela della salute pubblica.
Negli ultimi decenni, l’industria automobilistica aveva eliminato gli additivi di piombo dalla benzina favorendo la caduta consistente del piombo nei livelli del sangue di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo; ma ora quei livelli stanno di nuovo aumentando in gran parte perché nessuno ha pensato al piombo nelle batterie delle automobili, afferma Richard Fuller, Amministratore delegato di Pure Earth, una Onlus con sede a New York,.
Un richiamo molto importante, questo, se si pensa che oggi circolano su strada circa 1,4 miliardi di veicoli e che ogni anno vengono recuperate, spesso con modalità a dir poco discutibili, più di sei milioni di tonnellate di piombo, “il prodotto di consumo più riciclato al mondo”, secondo l’International Lead Association, un ente commerciale con sede a Londra.
Nel mondo, la produzione di piombo è in continua crescita; l’85% è destinato alla produzione di batterie che, in Africa, è in costante aumento … , in quel Continente, all’aumento della produzione segue inesorabilmente l’aumento dei problemi legati all’inquinamento.
Lo studio “Soil Contamination from Lead Battery Manufacturing and Recycling in Seven African Countries” (Contaminazione del suolo da produzione e riciclaggio di batterie al piombo in sette paesi africani), pubblicato nel 2018 sul Journal Environmental Research, ha testato le aree che circondano sedici impianti industriali autorizzati in Camerun, Ghana, Kenya, Mozambico, Nigeria, Tanzania e Tunisia. I livelli di piombo intorno agli impianti di riciclaggio delle batterie al piombo hanno raggiunto le 48.000 parti per milione (ppm) con una media di 2.600 ppm. I livelli inferiori a 80 ppm sono considerati sicuri per i bambini. (fonte: AZoCleantech.co)
Spesso gli impianti di riciclaggio delle batterie al piombo sono situati vicino a scuole e comunità residenziali, come i due impianti testati a Dar es Salaam in Tanzania (fonte: Occupational Knowledge International – Onlus di San Francisco, California)
Negli ultimi anni, l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente ha iniziato a riconoscere la crescente minaccia del riciclaggio delle batterie al piombo per la salute pubblica e l’ambiente. Nel rapporto conclusivo l’Assemblea tenutasi a Nairobi il 23 e il 24 maggio 2016 “… richiama e invita gli Stati membri che non l’hanno ancora fatto a riflettere sulla sana gestione di prodotti chimici e rifiuti come priorità nei loro processi nazionali di pianificazione dello sviluppo sostenibile.”
Proprio a causa della mancanza di regolamentazione e di investimenti in impianti di riciclaggio rispettosi dell’ambiente, l’Africa sta affrontando un problema di avvelenamento da piombo particolarmente grave.“Ma finora”, scrive Faridah Were dell’Università di Nairobi, “nonostante l’urgente necessità … lo sforzo dei governi africani è stato minimo”. La maggior parte delle strutture di recupero delle batterie esauste sono piccole, sovente gestite in ambiente famigliare. Inoltre, sia nelle strutture più grandi sia in quelle piccole, molto spesso mancano adeguati controlli per prevenire disastri e continua contaminazione ambientale.
Nonostante i ripetuti allarmi dell’Organizzazione Mondiale dalla Sanità (OMS) e di molti studi di Istituzioni pubbliche e private, il problema sembra lontano dall’essere risolto.
Si stima che in Africa, nell’area sub-Sahariana, vengano “lavorate” ogni anno circa 1,2 milioni di tonnellate di batterie usate per recuperare circa 800 mila tonnellate di piombo. Sono numeri impressionanti, noti solo agli addetti ai lavori.
A misurarne la dimensione è significativo il confronto con quelli italiani; salvo che, in Italia, le attività di recupero vengono realizzate nel rispetto delle norme di legge, e coordinate dalla rete Cobat.
In un articolo del 2001 a cura del sito energia-plus.it si segnala che “solo in Italia, nei sei impianti di riciclaggio cui vengono destinate le batterie raccolte, nel corso del 1999, sono state avviate a riciclaggio 217.248 tonnellate di batterie e altri rifiuti piombosi, e sono state ricavate 107.520 tonnellate di piombo e leghe di piombo secondario che hanno contribuito per il 39% circa al fabbisogno italiano e per l’88% alla realizzazione di nuove batterie.”
Speranze per l’Africa
Nonostante tutto, però, l’Africa, poco alla volta, sembra prendere coscienza dei diritti delle proprie comunità vessate anche da industrie straniere, molto spesso colluse con amministratori locali, che operano senza regole nel territorio.
Nei pressi di Owino Uhuru, una baraccopoli ai margini della città costiera di Mombasa, in Kenia, un’azienda indiana, la Metal Refinery–EPZ ltd (1) nel 2007 decise di aprire l’attività di recupero del piombo. Per farlo aveva trovato un metodo molto efficace ed economico: nel processo di lavorazione che prevede, tra l’altro, anche la fusione dei vari componenti per il recupero del piombo, i sistemi di abbattimento degli inquinanti erano stati eliminati; fuori dal proprio perimetro produttivo accadeva qualcosa, ma non se ne curava.
Dalle ciminiere dello stabilimento ogni giorno, prevalentemente di notte, fuoriusciva un fumo nero che toglieva il respiro e faceva lacrimare gli occhi: liquidi tossici, acido solforico, ossido di piombo, plastica e altri materiali evaporati nella combustione; l’acqua usata nei lavaggi, durante le lavorazioni, veniva liberata e finiva nei pozzi o nei torrenti vicini.
Fu così che i livelli di veleno nel sangue, soprattutto piombo, in molti residenti, in poco tempo, erano aumentati pericolosamente.
Phyllis Omido con una famigliola di OwinoUhuru – Alle loro spalle la cinta della Metal Refinery
Due anni dopo l’arrivo della Metal Refinery, nel 2009, la comunità di Owino Uhuru, guidata dall’attivista ambientale e avvocata Phyllis Omido, decise di riunirsi nell’associazione Cjgea (Centro per giustizia e azione ambientale) per fare valere i propri diritti e costringere l’azienda alle proprie responsabilità. La stessa Phyllis sperimentò sul proprio figlio di pochi mesi cosa significava vivere in quell’ambiente, dopo essersi accorta di averlo contagiato con il proprio latte.
In un’intervista, raccolta da Avvenire il 18 luglio 2020, uno dei membri di Cjgea racconta: ”C’è voluto, però, il primo morto affinché ci rendessimo davvero conto dei danni che stavamo subendo. Da quel momento in poi ci siamo uniti per combattere tutte le ingiustizie ambientali provocate dalle aziende nazionali straniere sul territorio keniano”.
La vita della Cjgea e dei suoi componenti non è stata tranquilla. Già dall’inizio le autorità locali e centrali iniziarono a guardare con sospetto l’associazione. La Onido e altri attivisti ambientalisti subirono pressioni di ogni genere; furono picchiati, minacciati e arrestati. Nonostante ciò, il loro appello negli anni riuscì a raggiungere molte organizzazioni internazionali tra cui le Nazioni Unite.
L’eco internazionale della vicenda costrinse la Metal Refinery a chiudere le attività nel 2014.
Rimanevano, però, da sanare i danni subiti dai parecchi residenti e dal territorio nel quale permaneva l’inquinamento.
Il Goldman Environmental prize, il più importante riconoscimento per gli ambientalisti a livello mondiale assegnato nel 2015 a Phyllis Omido, diede un ulteriore impulso alla vicenda.
Nel 2016 la Corte di Mombasa per la terra e l’ambiente avviò il processo contro l’azienda. Ci sono voluti quattro anni, ma alla fine il verdetto contro la Metal Refinery è stato emesso.
Il giornale inglese The Guardian riferisce che la giudice della Corte, Anne Omollo, si è pronunciata il 14 luglio 2020:“La popolazione ha diritto a un ambiente sano e ad acqua pulita, come prevede l’articolo 43 della Costituzione. Il pagamento verrà diviso tra alcuni organi dello Stato e le società private coinvolte”, ordinando un risarcimento ai residenti di Owino Uhuru di 10 milioni di euro.
La strada per l’emancipazione dell’Africa sarà ancora molto lunga, ma piccoli significativi tasselli si compongono nel mosaico più ampio del riconoscimento dei diritti delle popolazioni e dei singoli.
È un inizio, ma …
Un nuovo rischio è in vista
La sfida prossima sarà rappresentata dalla “mobilità elettrica”. Le vendita delle auto elettriche senza motore termico, equipaggiate con le batterie al litio-cobalto, stanno ponendo una nuova incognita sul fronte dello smaltimento e del recupero. Si stima che entro il 2025 (nel giro di tre anni), solo in Europa, circa 6 milioni di autovetture saranno a trazione elettrica.
“Un trattamento idoneo durante il recupero permette di evitare l’emissione nell’ambiente di sostanze pericolose – afferma Danilo Bonato, Direttore Generale di Eiron Energy.– Il litio è molto reattivo all’aria e all’acqua poiché entrando in contatto con l’ossigeno genera prodotti tossici e, come altri metalli, è altamente infiammabile e a rischio esplosione … l’industria, gli Stati e gli addetti al settore del riciclo dovranno trovarsi preparati. L’odierno sistema ha costi elevati che solo un forte investimento sul fronte tecnologico potrà abbattere”.
C’è da sperare che i gravi problemi generati dalle attuali modalità di trattamento delle batterie al piombo servano da stimolo, onde evitarne di maggiori nel non lontano futuro.
Un aspetto di particolare valenza è quello del rifornimento alle industrie del litio e del cobalto: da qui al 2030 i consumi di litio e cobalto potrebbero aumentare, rispettivamente, di 80 e 50 volte rispetto a oggi, generando più di un’ombra sulla “sostenibilità” ambientale e sociale nelle miniere dei Paesi produttori.
Ma questo … è già oggi un problema. Domani?
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(1) Metal Refinery –EPZ ltd è un’azienda indiana specializzata in sviluppo e vendita di prodotti provenienti da batterie d’automobili riciclate. “I nostri prodotti sono venduti bene sia nel mercato interno sia oltre mare inclusi America, Giappone, Europa, Hong Kong e Sudest Asia. Di conseguenza abbiamo raggiunto una buona reputazione tra i nostri clienti” (dal sito dell’Azienda.)