Un Mondo in piazza: Libano – Puntata 7

In questi primi mesi del 2020 sono tornati a casa. Non l’hanno fatto perché hanno ”vinto”, non per la repressione subita, ma per ragioni sanitarie. Una nazione dopo l’altra, con il diffondersi della pandemia da Covid-19, ha costretto anche i più riottosi a isolarsi nelle proprie case per evitare il contagio. Così, sono finiti “in panchina” i manifestanti che nel 2019 avevano invaso le piazze di molti paesi: manifestavano il loro disagio e la loro rabbia per la forte carenza di giustizia sociale e per le mancate riforme politiche.
Ma l’anno prima erano lì.
In Libano, dopo 45 giorni di relativo silenzio, la protesta ha ripreso a montare cambiando volume e registri. Rimangono i temi delle prime proteste, ma c’è chi paventa il rischio di rivoluzione, se non di guerra civile.
L’incubo degli anni tra il 1975 e il 1990 potrebbe tornare.

Eraldo Rollando
04-06-2020
Libano, sull’orlo dell’abisso.
Da mesi Tripoli, città di circa 190mila abitanti nel nord-ovest del paese, è l’epicentro delle proteste scoppiate il 17 ottobre 2019 contro il carovita, la corruzione e la rapida svalutazione della Lira libanese.
Dal dicembre 1997, per più di venti anni, il Dollaro Usa veniva di fatto usato nelle transazioni commerciali del paese come moneta alternativa alla divisa nazionale con un cambio fisso di 1507,5 Lire per Dollaro (fonte BanqueduLiban).
Nell’autunno dello scorso anno la divisa libanese aveva cominciato a svalutarsi, crollando in pochi mesi a un tasso di cambio di 4000 Lire per Dollaro e costringendo la Banca Centrale a limitare il prelievo di valuta statunitense.
Nella popolazione, già frustrata dalla corruzione clientelare da tempo presente nel paese, si era creato un cortocircuito con il sistema bancario, percepito come il responsabile del rincaro dei prezzi; la successiva decisione del governo di imporre nuove tasse su alcuni beni e servizi, tra cui tabacco e benzina, aveva dato il via alle prime estese manifestazioni di piazza, da lungo tempo assenti in Libano.
Le proteste, iniziate come un movimento non violento, con la partecipazione tra i manifestanti di moltissime donne, si erano diffuse rapidamente in tutto il paese salendo di tono e arrivando a scontri con le forze di sicurezza. Solo la prudenza dei manifestanti, o forse il caso, ha limitato i danni ad un solo morto; l’agente responsabile dell’omicidio è stato poi arrestato.

Il premier del Libano Hariri

Nell’impossibilità di arginare le proteste, il governo libanese guidato da Saad Hariri dovette rassegnare le dimissioni. In TV il premier aveva dichiarato “Ho preso questa decisione dopo aver ascoltato le richieste dei manifestanti”, affermando che si era trovato in un vicolo cieco.

Il 13 novembre il presidente del Libano Michel Aoun aveva parlato in televisione invitando i manifestanti a porre fine alla rivolta e a “tornare a casa”; aveva aggiunto, inoltre, che la situazione del paese era “catastrofica” e aveva fatto capire che le persone scontente della gestione del paese avrebbero fatto meglio a emigrare.
Quest’ultima affermazione, singolare per un capo di stato, era forse motivata dalla nutrita presenza nel paese di 2 milioni di profughi siriani a fronte di 6,8 milioni di libanesi.

Nel frattempo, le proteste, che inizialmente perseguivano uno scopo di giustizia economica e di moralizzazione della vita sociale e amministrativa, avevano iniziato a cambiare direzione. Complice la crisi politica, innescata dalle dimissioni del premier, presero a caricarsi di motivazioni politiche.
Il Libano è un paese dove l’appartenenza settaria è molto forte e il mantenimento degli equilibri istituzionali è questione delicata. In base a una convenzione del 1943, le più alte cariche dello Stato sono assegnate, a rotazione, ai tre gruppi principali: attualmente il Presidente della repubblica è cristiano maronita , il primo ministro è sciita e il presidente del parlamento è sunnita.
Una delle richieste dei manifestanti è stata proprio quella di superare questo schema per organizzare una società più omogenea e priva di potenziali punti di frattura politica.
In questa vicenda il partito sciita Hezbollah (accusato di essere una formazione terroristica dalla politica occidentale), tra l’altro anche forza paramilitare probabilmente più potente dell’esercito nazionale, ha preso posizione contro le manifestazioni non accettando le dimissioni di Hariri, dello stesso partito, in quanto, con la formazione di un nuovo esecutivo, sarebbero state messe a rischio le cariche ministeriali faticosamente “conquistate”.
Hezbollah gode dell’appoggio dell’Iran che, nella vicenda, ha confermato il suo sostegno acutizzando la crisi libanese e, cosa peggiore, internazionalizzandola.
Non per nulla c’è chi dà credito ad una analisi apparsa su Al Jazeera per la quale “le manifestazioni andrebbero inquadrate come qualcosa fra la nascita di un nuovo movimento politico che si ribella allo status quo e una rivoluzione che, secondo altri, potrebbe portare addirittura a una nuova guerra civile”(Wired.it).

Ai primi di marzo 2020 anche in Libano si è affacciato il Coronavirus e sulle proteste è calata la nebbia. Una nebbia di breve periodo però, in quanto già alla metà di aprile sono riprese sporadiche manifestazioni.
A marzo il governo aveva dichiarato il default economico dello stato, non potendo rimborsare all’Unione europea un debito di 1.200 milioni di dollari.
La grave crisi economica, finanziaria e politica ha finito per mettere in ginocchio il paese; i disoccupati aumentano in maniera esponenziale e i dipendenti pubblici rischiano di non essere più pagati.
“Quando militari, spazzini e infermieri non ce la faranno più, con salari che hanno perso il 70 per cento del loro valore, si teme un sollevamento popolare senza precedenti” (Agensir-Agenzia d’informazione, 30 aprile 2020)

Tutto può accadere, anche un miracolo, ma è certo che, rispetto alla iniziale prospettiva sollevata dalle manifestazioni del 17 ottobre 2019, questa crisi apre visioni da incubo nel paese dei cedri.

(7, continua)
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