Armenia – Azerbaijan: prospettive di pace

Il “Conflict data program” dell’Università svedese di Uppsala ha censito 169 conflitti nel 2020, l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili, per un totale di oltre 81.447 vittime. Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, il tragico conteggio delle guerre in atto ha raggiunto quota 170.Tuttavia segni di speranza avanzano: nello Yemen, con la tregua in corso, e nel Nagorno- Karabakh, con l’inizio dei negoziati tra Armenia e Azerbaijan.

 

Eraldo Rollando
15-06-2022

Nel Nagorno-Karabakh, enclave armena a maggioranza cristiana nel sud-ovest dell’Azerbaijan (a maggioranza musulmana) dal 1988  Armenia e Azerbaijan hanno  “menato le mani” a fasi alterne, tra scontri armati, piccole scaramucce  e accordi di pace traditi.
Nel 1920, all’epoca in cui entrambi i paesi facevano parte dell’Unione Sovietica, la regione fu assegnata da Stalin all’Azerbaijan.
Una scelta incomprensibile – come altre ne sono state fatte tra il XIX e XX secolo – sulla quale gli storici si trovano discordi: alcuni sostengono che fosse generata dal desiderio di Stalin di accattivarsi le simpatie della Turchia per attirarla nell’area comunista, altri invece attribuiscono la scelta al principio del “divide et impera” staliniano: una strategia che mirava a includere in ogni repubblica sovietica  minoranze etniche delle repubbliche vicine per ridurre il rischio di formazione di  una forte identità nazionale.
Si è generata, di fatto, una situazione complicata da interessi economici, politici, religiosi e geostrategici, dove la linea di confine è stata tracciata eludendo ogni ragionevole diritto  di identità e appartenenza  delle popolazioni locali.
Oggi risulta più evidente come dietro questo conflitto irrisolto si celi la partita per il controllo delle risorse energetiche, in particolare petrolio e gas. In passato Mosca, ad  ogni scoppio di violenza, si è sempre presentata, unico interlocutore credibile, con le vesti di “disinteressato” paciere cercando di ristabilire l’ordine o quantomeno di calmare le acque.

Ma dall’ottobre 2020 gli equilibri strategici della regione sono cambiati con l’arrivo di un nuovo attore: la Turchia di Erdoğan, da sempre sostenitore dell’Azerbaijan, ma mai entrato “a piedi uniti” nella disputa .
A inizio ottobre sono iniziate le prime tensioni che sono sfociate il 27 dello stesso mese in un nuovo conflitto, improvviso e cruento, come accaduto ripetutamente in passato tra i due Paesi, con l’intervento dell’esercito azero che ha lanciato attacchi missilistici contro varie città nella regione. La domanda che ci si pone è: perché questo attacco improvviso? Una delle risposte più accreditate tra gli analisti è nella contingente debolezza politica del governo dell’Azerbaijan in grave difficoltà per le ripercussioni del coronavirus sul prezzo del petrolio e del gas (ricordo che parliamo di ottobre 2020, periodo antecedente alla guerra in Ucraina). Quale migliore strategia per unire la popolazione attorno al governo in un momento di crisi,  se non quella di mettere in difficoltà l’odiato nemico armeno? E questa volta è Ankara a prendere la palla al balzo per fornire sostegno diretto all’Azerbaijan e presentarsi come “player” ufficiale nella disputa offuscando parzialmente Mosca; con il risultato di  complicare le cose laddove il resto del mondo spingeva al dialogo.  In un paio di settimane la guerra ha portato a quasi 7 mila vittime civili.
Per riprendere in mano la situazione, sgonfiare il rischio di escalation e “tagliare l’erba” sotto i piedi di Erdogan, la Russia – che nella disputa sostiene l’Armenia – gioca la carta territoriale a favore della Turchia  concedendo  alcune porzioni del territorio armeno all’Azerbaijan,  inclusa parte della regione del Kelbajar. In quel territorio si trova un’importante miniera d’oro, peraltro  gestita dalla russa GeoPro Mining Gold, divisa dal confine: una parte si trova in Azerbaijan, l’altra in Armenia.

Non è sempre facile sciogliere nodi complicati da feroci dispute decennali, soprattutto quando la convenienza prevalente è quella del paciere che, dietro le quinte, mira ai propri interessi strategici.
Il risultato è stato di avere gettato altra benzina sul fuoco:   violente  manifestazioni di protesta sono scoppiate a Erevan, la capitale armena, che si è vista sottrarre dall’alleato russo un’importante risorsa a favore del pluridecennale nemico.

Per risolvere la crisi che sembra essersi infilata in un vicolo cieco, a causa della ormai impossibilità di Mosca di presentarsi come mediatrice, è ora l’Unione Europea a spingere per negoziare un trattato di pace. Il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, è riuscito a portare a Bruxelles i leader dei due Paesi, il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, e il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan.
Domenica 22 maggio Michel ha potuto dichiarare: “La discussione è stata franca e produttiva, abbiamo esaminato in dettaglio le questioni umanitarie, compreso lo sminamento, gli sforzi per liberare i detenuti e per affrontare il destino delle   persone scomparse”, ed ha poi aggiunto: “Il presidente dell’Azerbaijan, e il premier dell’Armenia, hanno concordato di portare avanti le discussioni sul futuro trattato di pace che regola le relazioni inter-statali  tra i due Paesi”.
L’incontro del 22 maggio era stato preceduto da altri tre incontri che hanno permesso di ottenere un primo risultato, sintetizzato nel comunicato stampa del presidente Charles Michel.          (clicca sul Box a lato per ingrandire)

Nutriamo la  speranza che anche il Nagorno-Karabakh possa giungere presto ad una pace consolidata e duratura.

 

 


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