Il Giano dagli occhi a mandorla

Eraldo Rollando
19-12-2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La Cina riconosce ufficialmente 56 gruppi etnici distinti, il più grande dei quali è quello dei i cinesi han, che costituiscono circa il 91,9% della popolazione totale … La politica ufficiale afferma di essere contro l’assimilazione … Il grado di integrazione dei gruppi etnici di minoranza con la comunità nazionale varia largamente da gruppo a gruppo.”. (Wikipedia)
Il rimanente 7,1 %, come i tibetani e gli uighuri, sembra infatti non avere vita facile; mentre in politica estera i sorrisi non si risparmiano.

1 – Soft power
C’è un animale la cui immagine allo stesso tempo buffa e goffa ha generato una sorta di innamoramento collettivo nei suoi confronti: il panda. La sua livrea, con i colori bianco e nero, è ormai conosciuta a livello planetario.
Da tempo la Cina “utilizza” questo animale nei rapporti diplomatici con Stati esteri; non si conosce la data di nascita della cosiddetta “diplomazia del panda”, sembra che già nel 685 l’Imperatrice Wu Zetian fece dono di una coppia di questi orsi al vicino Giappone.
Nei secoli, questa “simpatica” usanza è proseguita sino a raggiungerci o meglio, a raggiungere l’attuale Presidente cinese Xi Jinping, il quale ha trovato la modalità per coniugare simpatia e affari.
E’ noto che il panda, a causa del forte impoverimento delle foreste di bambù dal quale trae il suo unico alimento, è ad alto rischio di estinzione; si calcola che il gruppo si sia ristretto a 1864 esemplari, secondo l’ultimo censimento del WWF.
A causa di ciò, la Cina non regala più i suoi panda: li presta, dietro compenso; garantisce che gli introiti di questo strano leasing saranno impiegati nella protezione della specie, nonostante qualche osservatore abbia lamentato la scarsa trasparenza dell’operazione.
“Tra il 2015 e il 2017 il numero dei panda negli zoo del mondo è quasi raddoppiato, raggiungendo la cifra di settanta esemplari in venti Paesi, contro i quarantacinque sparsi nei dodici Paesi del 2015.
Questo incremento è dovuto soprattutto al grande accento che Xi Jiping pone sul “soft power” mentre candida la Cina a nuova guida dell’ordine mondiale”
(Giada Messetti – Nella testa del Dragone – Ed.Mondadori 2020)

2 – Voglia di normalizzazione
All’interno dei confini dell’Impero Celeste la politica, però, cambia verso.
Non da adesso: abbiamo davanti agli occhi la via percorsa dal Tibet, Paese di fede buddista, ricordando che il quattordicesimo Dalai Lama, al secolo Tenzing Gyatso, dal 1959 è costretto all’esilio dall’esercito di liberazione cinese.

Fatti più recenti ci riportano al territorio di Hong Kong, che dovrebbe godere dello statuto di Regione amministrativa speciale fino al 2047, a seguito degli accordi tra Gran Bretagna e Cina del 1997, quando venne sancito il passaggio della sua sovranità a Pechino, regolato dal principio “una Cina, due sistemi”; ma i princìpi, come gli accordi, sono sempre tra le mani del più forte.
Da “piccole” rivendicazioni sulla scuola, la richiesta di autonomia degli hongkonghesi è salita mano a mano sino a raggiungere l’obiettivo maggiore: il mantenimento del sistema democratico. Dal 2014, anno della Rivoluzione degli ombrelli, sono in corso quasi quotidiane manifestazioni pro-democrazia; tra il 2019 e il 2020, un tentativo dell’amministrazione di introdurre una legge che prevedeva di estradare in Cina continentale tutte le persone accusate di reati gravi, le manifestazioni hanno raggiunto picchi di carattere insurrezionale.
Ma Il 28 maggio 2020 la voglia di “normalizzazione” ha messo la sordina alle proteste e alle rivolte giovanili con l’introduzione della nuova legge “sulla sicurezza nazionale”, in grado di estendere a Hong Kong i poteri concessi alle forze di polizia cinesi; ufficialmente ha l’intento di contrastare reati di terrorismo, secessione, sovversione e ingerenza straniere, in pratica diviene un utile e pretestuoso strumento per bloccare ogni forma di dissenso. Non ci vuole molto a immaginare che, sotto questa legge, il 2047 si presenterà alle porte dei hongkonghesi con grande rapidità.

Ma non finirà lì, prima o poi Macao, Regione amministrativa speciale della Repubblica cinese di 651 mila abitanti, dovrà subire la stessa sorte.
E Taiwan, che da parte sua si considera l’erede di quella Repubblica di Cina nata nel 1912 con la fine dell’Impero Cinese della dinastia Qing, è sotto la continua minaccia del Dragone.

Le autonomie, comunque declinate, non sembrano essere la prima opzione per la Cina; “Il Partito comunista non capisce i valori liberali, quindi di certo non può accettarli … se non viene tenuto a bada, il dissenso può diffondersi a ruota libera in tutta la Cina e minacciare la stabilità stessa del regime comunista” (Joshua Wong (1) – Noi siamo la rivoluzione Ed. Feltrinelli – 2020)
Non si capisce, però, come Pechino possa conciliare queste pratiche, spesso inumane, con la firma (2) apposta sotto la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e la richiesta, formulata già da tempo, di essere ammessa al Consiglio sui diritti Umani dell’ONU.

3 – Un caso paradigmatico: gli Uighuri
Nello Xinjiang, noto alle comunità locali come Turkestan Orientale, territorio autonomo nel Nord-ovest della Cina e vasta regione di deserti e montagne, vivono numerose minoranze etniche turcomanne; tra queste 13 milioni di Uighuri – meno dell’1% della popolazione cinese – di fede mussulmana che, da tempo, sono sotto l’attenzione della Stampa, di Associazioni indipendenti e Istituzioni a causa della politica di assimilazione coatta che la Cina sta mettendo in atto nei loro confronti.

China – XinJiang (fonte il Manifesto)

Di fatto, sono la rappresentazione plastica della seconda faccia del Giano Bifronte, il misterioso dio romano dai due volti.
Vari reportage, testimonianze e indagini hanno portato alla luce una serie di violazioni dei diritti umani di questa comunità tra le quali la campagna di repressione e di internamento di massa, l’attività repressiva diretta contro la pratica religiosa tra i musulmani , l’impiego forzato delle persone internate alla produzione di abbigliamento per grandi marchi internazionali e, non ultima, la campagna di controllo coatto delle nascite con azioni di sterilizzazione di massa.

Secondo quanto riferisce SkyTG24, in un servizio del 28 November 2019, “Le violazioni nei loro confronti si sono intensificate dal 2001, presentate come una campagna di lotta al terrorismo”; allo stesso tempo segnala che “Il 18 novembre 2019 il New York Times ha pubblicato più di 400 pagine di documenti riservati che descrivono il giro di vite della Cina contro le minoranze etniche musulmane nella regione di Xinjiang, in particolare gli uighuri, rinchiusi in campi di prigionia o nelle carceri. Tra le carte, per quella che è stata definita la più grande fuga di notizie da Pechino da decenni, anche discorsi del presidente Xi Jinping, che nel 2014 esortò a non avere “alcuna pietà” nei confronti di questo popolo”.

Nel suo Rapporto, pubblicato nel giugno 2020 dalla Fondazione The Jamestown FoundationWashington, l’antropologo tedesco Adrian Zenz (3), approfondisce i fatti di cui parliamo puntando l’attenzione sulla campagna di repressione e di sterilizzazione.

“Secondo Chinese Human Rights Defenders (Chrd), le autorità cinesi non attuano le raccomandazioni formulate dalle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti umani … Due anni dopo il terzo esame periodico universale condotto nei suoi confronti dall’Onu, Pechino non ha attuato in modo pieno alcuna delle 58 raccomandazioni che affermava di aver “accettato”. Di queste, cinque sono state attuate in modo parziale, e 53 non sono state applicate”. Lo riferisce AsiaNews.it che l’8 ottobre 2020 pubblica il testo completo del Rapporto Onu, reso noto da Chinese Human Right Defenders (Chrd)

Anche l’Organizzazione internazionale Human Rights Watch interviene per sconfessare Il leader cinese Xi Jinping, che finge di ignorare gli abusi sistematici dei diritti nel suo Paese.

Contro l’impiego forzato per la produzione di abbigliamento, ha alzato la sua voce l’Associazione Uighuro Americana (UAA), nata nel 1998, lanciando la campagna
“Abiti puliti” sostenuta da una coalizione di 290 organizzazioni di più di 35 Paesi.
L’Associazione segnala che il cotone proveniente dalla regione uighura rappresenta l’84% del cotone cinese e il 20% del cotone nel mondo, che il 20% dei capi in cotone nel mercato globale dell’abbigliamento sono prodotti dal lavoro forzato e che le grandi Griffe del lusso sono complici di questo sistema. Inoltre, “ … la coalizione si appella a marchi e rivenditori leader per assicurarsi di non sostenere o beneficiare del lavoro forzato pervasivo ed estensivo della popolazione uighura e di altri popoli a maggioranza turca e musulmana, perpetrato dal governo cinese.”

Il 17 settembre 2020 la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato The Uyghur Forced Labor Prevention Act (HR 6210), una legge con la quale viene stabilito che qualsiasi prodotto realizzato nella Regione uighura, o con materiale proveniente dalla zona, sia sottoposto alla presunzione legale di essere stato confezionato attraverso l’uso di lavoro forzato.
Le aziende statunitensi avranno l’onere di dimostrare il contrario, altrimenti l’importazione sarà considerata illegale e il prodotto non potrà entrare nel Paese.

A Milano, nella giornata conclusiva della Settimana della Moda 2020, sono comparsi sui muri di alcuni negozi di moda manifestini di condanna della pratica di sfruttamento del lavoro coatto.

In una Risoluzione del 19 dicembre 2019, il Parlamento europeo esprimeva “Profonda preoccupazione in relazione al regime sempre più repressivo cui si trovano confrontati gli uighuri e altre minoranze etniche musulmane, e chiede che le autorità rispettino le loro libertà fondamentali, come raccomandato da relazioni attendibili; condanna fermamente il fatto che centinaia di migliaia di uighuri e persone di etnia kazaka siano stati inviati in “campi di rieducazione” politica sulla base di un sistema di polizia predittiva”.

Nel frattempo Soft Power e voglia di normalizzazione proseguono imperterriti il loro cammino .

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Note:
(1) Joshua Wong è il giovanissimo animatore di Demosisto, il partito che guida le proteste contro l’ingerenza di Pechino nell’autonomia di Hong Kong
(2) Per un approfondimento di questa parte vai Qui, alla sezione Cina
(3) Adrian Zenz è un antropologo tedesco e uno dei maggiori studiosi al mondo sulle politiche del governo della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nei confronti delle regioni occidentali del Tibet e dello Xinjiang.
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Per chi è interessato ad approfondire:
https://www.uyghur.it/it/turkestan-orientale.html
https://jamestown.org/program/sterilizations-iuds-and-mandatory-birth-control-the-ccps-campaign-to-suppress-uyghur-birth-rates-in-xinjiang/
https://it.bitterwinter.org/sterilizzazione-di-massa-delle-donne-uigure/
https://it.bitterwinter.org/xinjiang-tibet-e-mongolia-teoria-e-pratica-del-genocidio-culturale/
https://www.nytimes.com/2020/07/23/fashion/uighur-forced-labor-cotton-fashion.html
htps://www.osservatoriodiritti.it/2018/09/10/uiguri-cina-repressione-xinjiang/
https://www.agi.it/estero/repressione_uiguri_musulmani_in_cina-6565830/news/2019-11-16/
https://www.uyghur.it/it/lettore/787-mai-piu-gli-ebrei-con-gli-uiguri-contro-il-nuovo-genocidio.html
https://www.ilpost.it/2018/09/10/cina-campi-detenzione-uiguri/
http://asianews.it/notizie-it/Come-gli-uiguri:-tibetani-rinchiusi-nei-campi-di-rieducazione-(III)-51152.html

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