Israele, pace e interessi sullo sfondo

Eraldo Rollando
18-10-2020
Intendiamoci bene, pace ha un solo significato, con chiunque si faccia e come si faccia; quindi, è positivo che già quattro paesi arabi abbiano raggiunto un accordo per stabilire rapporti diplomatici con Israele.
E, a quanto si dice negli ambienti diplomatici, altri seguiranno: si parla di Oman, Sudan e Marocco ai quali si accoderà, con molti forse e molti ma, l’Arabia Saudita, senza il consenso della quale ogni mossa in questa direzione non avrebbe successo.
L’Arabia Saudita si muove in un terreno per lei molto difficile; stando a quanto rileva il quotidiano “Times of Israel”, sebbene i due Paesi in pratica mantengano da anni in maniera non ufficiale legami economici e diplomatici continui, un riavvicinamento troppo accelerato della dinastia saudita a Gerusalemme, non è attuabile a causa dei seri problemi che si potrebbero creare nei rapporti con i suoi partners sunniti, essendo Riyad custode dei luoghi santi della religione islamica. Da questo lato, quindi, ci sarà da attendere che la diplomazia saudita abbia dispiegato tutta la sua forza di persuasione.

La firma dell’Accordo di Abramo

Il 15 settembre 2020 è stato firmato alla Casa Bianca l’Accordo di Abramo tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, alla presenza del Presidente USA Donald Trump, promotore e facilitatore; convitato di pietra il popolo palestinese, sulla cui testa sono passate e passano queste intese, e il cui commento è stato: “Una coltellata alla schiena”.
Più indietro negli anni le relazioni diplomatiche erano già state ristabilite con gli altri due Stati, non presenti a questa firma: con l’Egitto nel 1979 e con il Regno Hashemita di Giordania nel 1994; quest’ultimo, a seguito degli scontri armati succedutisi negli anni con Israele a partire dal 1948, era stato costretto a cedere, sotto la minaccia delle armi, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Una mossa, l’Accordo di Abramo, destinata nel tempo a cambiare gli equilibri nel Medio Oriente, nel quale gli attori che si “guardano” cercano con ogni mezzo di far prevalere il proprio interesse nazionale: Israele, palestinesi di Cisgiordania e Gerusalemme Est (moderati della fazione Al Fatah), palestinesi della Striscia di Gaza (estremisti della fazione di Hamas), Paesi islamici sunniti, Paesi islamici sciiti. Sopra di loro le ombre, gli interessi e gli interventi di USA, ma anche di Turchia.

Una pace con “quelli di fuori”?
Pur ragionando sul fatto che si tratta di un accordo che, finalmente, regola le relazioni tra due Paesi arabi e Israele, e pur considerando che l’evento è di sicura portata storica per le prospettive future, non si può non notare l’assenza di ogni riferimento al popolo palestinese che, più di tutti, ha bisogno di pace.
Come mai questa rumorosa assenza? Dov’è finito il progetto due popoli due Stati? Perché non si parla più di occupazione israeliana di Gerusalemme Est e di Cisgiordania, nonostante l’Onu non perda occasione per ricordare che, sotto il profilo del diritto internazionale, di questo si tratta.
E’ ormai evidente che al minor isolamento d’Israele si contrappone un aumento delle difficoltà della Palestina, sempre meno sostenuta a livello internazionale.
Il sospetto è che, ormai, la questione palestinese non interessi più la politica internazionale.

Ogni accordo, di norma, è sempre il risultato di una mediazione tra “convenienze” divergenti. E’ anche questo il caso? Vediamo di ragionare su alcune di esse che, comunque, non sempre sono da considerare merce “poco pulita”.
Osservando i due attori principali, USA e Israele, forse con un po’ di malizia potremmo rilevare che i loro massimi dirigenti hanno senza dubbio qualcosa da guadagnare in termini di consenso elettorale, che nel tempo si è reso opaco.

L’immagine pubblica di Benjamin Netanyahu si è parecchio offuscata per i numerosi grattacapi che da tempo si trascina in casa.
Dopo tre elezioni che si sono succedute nell’ultimo anno e mezzo, a seguito delle quali il suo partito Likud non ha raggiunto i voti sufficienti per varare un “proprio” governo, ha dovuto arrendersi alla condivisione del potere con il suo concorrente Gantz, attuando una premiership a rotazione; in aggiunta a questo, il 24 maggio 2020 Netanyahu è stato rinviato a processo: è la prima volta per un premier in carica nel Paese della Stella di Davide; è incriminato per corruzione, frode e abuso di fiducia.
L’Accordo di Abramo dà indubbiamente lustro alla sua immagine politica e rimarca l’indubbio successo definendo l’accordo “una nuova alba politica”.
Nella trattativa Netanyahu ha ottenuto un accordo di pace, ma sul piatto della bilancia ha dovuto mettere la sospensione (non la rinuncia) all’annessione della Cisgiordania: una decisione comunque “sudata”. Trattandosi, però, di un territorio occupato militarmente e soggetto al diritto internazionale, non è una grande concessione. Evidentemente alle parti è bastato.

Dall’altra parte dell’oceano Donald Trump è alle prese con una difficile campagna elettorale per la rielezione alla presidenza USA e ha bisogno di rinforzare il consenso tra i suoi elettori. Il suo appeal politico è appannato da varie vicende nelle quali è direttamente o indirettamente coinvolto: tra tutte, la sua gestione a dir poco sconsiderata della pandemia, il suo sostegno, neanche troppo velato, al suprematismo bianco, la disdetta dell’accordo Onu sul clima e la mancata condanna della brutalità delle forze di polizia nel Paese.
Quest’ accordo è sicuramente un successo diplomatico e politico, e cerca di passare all’incasso. Naturalmente, non ha smentito il suo stile magniloquente, dichiarando che il 15 settembre è stata “una giornata incredibile per il mondo intero”; e, per non smentire la sua tendenza alla teatralità, Il presidente ha invitato ben mille persone (senza mascherina, in piena pandemia Covid-19) come testimoni sul parco prospiciente la Casa Bianca, trasgredendo gli ordini delle autorità sanitarie della capitale Usa che vietano le riunioni con la partecipazione di più di cinquanta persone.
E’ certamente vero che ha di fronte Joe Biden, un candidato democratico di non grande levatura politica e di poco carisma che, però, ha con sé le varie “anime”della sinistra progressista ricompattatesi nel partito democratico, in vista della “spallata” a Trump. Ma il presidente si sente il fiato sul collo e allora anche la pomposa cerimonia della firma dell’accordo, pubblicizzato con il piglio di Salvator mundi, dal suo punto di vista, può portare voti a un declinante carnet elettorale.

Continuando poi con lo sguardo di basso profilo, non possiamo dimenticare che i due Paesi del Golfo, firmatari dell’accordo, non sono venuti via con la sola colomba della pace in mano; hanno ottenuto la possibilità di acquistare moderni jet da combattimento dagli Usa e alta tecnologia militare israeliana.

Arabia Saudita e Iran?
Qui sta il punto più critico per le relazioni internazionali e, segnatamente, per tutta l’area del Vicino Oriente, dal Mediterraneo orientale al Mar Arabico.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è intervenuto all’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tenuta on line, con le seguenti parole:
“Israele e gli Stati di tutto il mondo arabo non solo si uniscono per promuovere la pace; siamo uniti per affrontare il più grande nemico della pace in Medio Oriente, l’Iran. L’Iran attacca intenzionalmente e ripetutamente i suoi vicini e i suoi delegati terroristici sono direttamente coinvolti nella violenza in tutto il Medio Oriente, inclusi Iraq, Siria, Yemen, Gaza e, naturalmente, Libano”. (fonte ANSA)
Una dichiarazione e un progetto che hanno un solo obiettivo: l’accettazione di Israele nel mondo arabo e un’alleanza comune contro l’Iran; un mondo, nel quale l’Arabia Saudita riveste un importante ruolo di regolatore e calamita per i suoi vicini sunniti.
Già nel 2002 fu tentata un’operazione di avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, quando la Lega Araba offrì un’amicizia completa in cambio della concessione ai palestinesi di uno Stato con capitale Gerusalemme e il ritiro dalle alture siriane del Golan; ovviamente, non se ne fece nulla.
Ma oggi, sotto la possibile minaccia nucleare iraniana, le condizioni sono cambiate; non il passo lungo richiesto nel 2002, che sarebbe stato ancora una volta inaccettabile ma, evidentemente, la sospensione da parte d’Israele del tentativo di annessione della Cisgiordania è parso sufficiente ai sauditi per la realizzazione di un progetto di medio termine: l’alleanza tra Israele e Arabia Saudita toglierebbe “aria” e costringerebbe alle corde la Repubblica Islamica e i suoi alleati sciiti.

Vincitori e vinti?
Già adesso s’intravede un successo di Israele: senza chances in politica estera, ma forte militarmente, riesce con poca spesa a porre condizioni ad alcuni Paesi arabi, cosa impensabile qualche anno fa.
L’Arabia Saudita potrà “accontentarsi”, nel tempo, di avere alleati solidi e, forse, un Iran indebolito.
I palestinesi continueranno, purtroppo, a soffrire per la loro situazione ancora irrisolta e con soltanto due paladini della loro causa all’interno del mondo musulmano: Iran e Turchia.
Hamas, ancora a Gaza, assicurerebbe la prosecuzione del conflitto.
L’Iran resta un’incognita sulla quale, oggi, pesa in negativo la politica estera degli Stati Uniti. Qualche spiraglio positivo si potrà vedere solo se il prossimo presidente USA riuscirà a riprendere i rapporti e a implementare gli accordi avviati da Obama e cancellati da Trump, ponendosi come credibile moderatore nell’area.

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