Una corsa all’energia senza regole agita le acque di un fiume poco noto ai più.
India e Cina si contendono il diritto di costruire dighe e invasi lungo il suo corso e il Bangladesh potrebbe subirne le maggiori conseguenze.
Eraldo Rollando
07-11-2021
Molto spesso i decisori politici dimenticano la grande verità che dovrebbe illuminare il concetto di “acqua bene comune”: l’acqua scende dal cielo come pioggia.
Ovunque nel pianeta questo concetto è stato sottomesso alla logica di un mercato sempre più sordo agli interessi comuni e, in questo, l’area indo-cinese non fa eccezione alla regola. Tre Stati, Cina, India e il piccolo Bangladesh sono sul punto di venire alle mani nel contendersi le acque del Brahmaputra. Il fiume, che nasce nel massiccio himalayano del Tibet cinese, a 4500 metri d’altitudine, attraversa i tre confini, per gettarsi, dopo una corsa di 2900 chilometri, nel grande delta del fiume Gange.
Anche il Brahmaputra oggi, come il Mekong, subisce la politica delle acque della terra del Dragone, che non accetta accordi per la gestione dei fiumi transfrontalieri che attraversano il suo territorio, salvo una sola eccezione – tradita – che vedremo di seguito. Come se non bastasse, la Cina non ha firmato la Convenzione di Helsinki sulla protezione e l’utilizzo dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali del 17 marzo 1992.

In aggiunta, una vecchia ruggine si interpone nei rapporti sino-indiani: nel 1962 una breve guerra, originata da dispute di confine, venne a conclusione con il possesso da parte cinese di una porzione del territorio indiano nordoccidentale che, unica area strategica, avrebbe permesso la realizzazione di un collegamento terrestre tra le provincie cinesi del Tibet, allora isolato, e dello Xinjiang.
Non fu mai stipulato un Trattato di pace, ma un semplice armistizio che non impedì nel giugno 2020 un ulteriore scontro sulla frontiera nordoccidentale dell’India, dove una sessantina di soldati di ambo le parti hanno perso la vita.
Segnale, quest’ultimo, di quanto siano precari i rapporti tra i due Paesi.
La diga della discordia
Nel novembre 2020 a sollecitare l’attenzione indiana e bengalese ci ha pensato Yan Zhiyong, presidente di Powerchina, uno dei cinque enti elettrici dello Stato cinese, con l’annuncio della costruzione in territorio tibetano di una diga nel tratto superiore del fiume Brahmaputra (in cinese Yarlung Tsangpo).

Le dimensioni dell’opera saranno tre volte maggiori della diga delle Tre Gole, costruita nel 2006 sul Fiume Azzurro nella provincia cinese di Hubei, nota per essere il più grande sbarramento del Pianeta.
Si può quindi immaginare cosa possa significare una struttura di tali dimensioni per il flusso delle acque a valle.
Nel 2008 e nel 2013,forse per il quieto vivere con un Paese così vasto, la Cina ha derogato al suo principio di “nessun accordo sulle acque dei fiumi con i Paesi confinanti”e ha firmato assieme all’India un Regolamento tecnico e un Memorandum d’Intesa per l’utilizzo comune e responsabile dei corsi d’acqua transfrontalieri. Ma c’è un ma.
Con l’annuncio di Yan Zhiyong, che di fatto straccia quegli accordi, l’ansia e le preoccupazioni di India e Bangladesh prendono corpo. Soprattutto considerando precedenti interventi cinesi segnalati da Osservatorioglobalizzazione.it in un articolo del 30 aprile 2021: “La costruzione di alcune dighe da parte della Cina sul corso superiore del fiume Brahmaputra ha determinato improvvise magre e inspiegabili peggioramenti dei parametri qualitativi dell’acqua, che hanno indotto le autorità indiane a protestare nei confronti di quelle cinesi, le quali non si sentono vincolate da nessun Trattato internazionale, non essendo tale il Memorandum of understanding (Memorandum d’Intesa), a comunicare i loro progetti idrici ai vicini”.
Nonostante sia stato messo nero su bianco, l’accordo è volato via come parole al vento. Resta sempre valida, però, la legge di chi si sente più forte e non punibile, che da queste parti ha un solo significato: il rubinetto delle acque del Brahmaputra è, e resta, in mani cinesi.
L’India, come segnalato da Osservatorioglobalizzazione.it, che si trova a valle e subisce le conseguenze di tale politica, ha denunciato il concreto rischio di riduzione della portata dell’acqua nei suoi territori, con tutte le conseguenze negative in termini di irrigazione delle infinite distese agricole e di potabilità dell’acqua per i suoi migliaia di villaggi fluviali, ma anche per la minaccia al potenziale idroelettrico del Paese, di cui il fiume rappresenta circa il 40 per cento del fabbisogno.
Nella situazione geostrategica nell’area indo-cinese, le alleanze che potrebbero formarsi – India/USA e Cina/Pakistan – rischiano di rappresentare un pericoloso focolaio di tensioni a livello internazionale, inserendosi nella corsa all’accaparramento idrico tra i due contendenti dove, ironia della sorte, l’acqua potrebbe essere la miccia che fa saltare il tappo.
Nessuno ha interesse che ciò succeda, tanto meno la Cina che necessita di mantenere ancora per qualche anno la sua politica del sorriso. Approfittando del ruolo in declino degli Stati Uniti in tutte le aree del Pianeta, cerca di mantenere alta la velocità di conquista economica-finanziaria per realizzare i suoi piani di “suprematismo planetario”. La storia ci ha insegnato, infatti, che grandi falò bellici hanno avuto come innesco “piccole” questioni regionali.
Intanto, tra i due grandi contendenti, chi rischia di più è il Bangladesh, il piccolo Paese inascoltato che teme una forte riduzione del flusso d’acqua del Brahmaputra sul proprio territorio, con il rischio che si trasformi in un rigagnolo residuale e inquinato.
(6, Fine)
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Nota: la nostra rassegna finisce qui. Lasciamo ai lettori che lo desiderano di individuare altri punti critici, relativi alle guerre per l’acqua, sparsi nel nostro pianeta; non sono pochi e neanche di dimensioni trascurabili.