Gabriella Carlon
21-09-2022
L’argomentazione fondamentale da parte di chi è favorevole all’invio di armi in Ucraina è che l’aggredito ha il diritto di difendersi: principio inoppugnabile.
Certo nessuno sostiene che chi è aggredito debba arrendersi senza reagire, ma si tratta di capire quale sia il modo migliore per farlo.
Secondo tradizione, si procede rispondendo alle armi con le armi, in una escalation che porterà alla vittoria una delle due parti in conflitto, con un incremento spaventevole di morti e distruzioni.
Va inoltre ricordato che non necessariamente il vincitore è chi ha subito il torto: a vincere è quasi sempre il più forte, come nel mondo animale, dove la violenza domina. Siamo nell’ottica vincitori-vinti che per altro pervade tutti gli ambiti della nostra società, fondata sulla concorrenza, sulla competizione, sull’affermazione dell’individuo, sulla privatizzazione e sulla progressiva soppressione dei beni comuni. Con tali premesse la guerra è il modo più congruo per risolvere le controversie sia di natura economica sia inerenti la strategia politica di dominio del mondo. Si sacrificheranno molte vite umane, si creeranno i martiri e gli eroi che avranno compiuto il loro dovere.
Se però vogliamo rifarci all’etica della responsabilità, dovremmo porci l’obiettivo primario e assoluto di fermare la guerra al più presto possibile. Come? Innanzi tutto non vendendo o inviando armi ai belligeranti (regola largamente disattesa); analizzando in modo puntuale e non partigiano le cause che hanno condotto al conflitto, onde poter intervenire con mediazioni e trattative appropriate tra i contendenti; evitando di creare ed enfatizzare la figura del nemico e operando per diminuire la tensione anziché fomentarla.
In secondo luogo, di fronte alla violenza dell’oppressore, sarà necessario opporre una ferma resistenza non-violenta, pratica di cui non siamo all’anno zero: Gandhi e Martin Luther King ce ne hanno mostrato l’efficacia. Se i miliardi spesi in armamenti fossero impiegati a creare corpi di pace, a inventare forme di opposizione non-violenta e a rafforzare gli organismi internazionali facenti capo all’ONU, si potrebbero certamente raggiungere risultati positivi senza tanti sacrifici umani.
Però, affinché si possa intraprendere questa strada, è necessario che si diffonda una mentalità collettiva che rifiuti la guerra, che la consideri un tabù. Come in una certa fase della storia umana si è considerata inconcepibile la schiavitù, così deve accadere per la guerra che, grazie alla moderna tecnologia, è diventata quanto di più terrificante si possa immaginare. Sarà un percorso faticoso e non lineare perché presuppone il controllo dei propri istinti aggressivi; ma siccome non credo nella fissità della specie, bensì nella sua evoluzione, ritengo che il processo sia non solo auspicabile ma anche possibile. Certamente si tratta di un processo che dovrebbe coinvolgere tante persone per creare un’opinione pubblica capace di imporsi alla lobby delle armi e ai governi guerrafondai da essa sostenuti.
Uno spiraglio di speranza nasce dal fatto che oggi la parola guerra è bandita dal discorso di chi la provoca: non si fa più la dichiarazione ufficiale di guerra e si dice di essere impegnati in missioni militari speciali, in interventi umanitari, in interventi di polizia internazionale o addirittura in missioni di pace. Ciò significa che l’opinione pubblica non si entusiasma più all’idea di combattere una guerra.
Nel caso dell’Ucraina alla mistificazione degli obiettivi (che accade in tutte le guerre) si aggiunge una conduzione del conflitto per procura da parte dell’Occidente, che in tal modo salvaguarda i propri cittadini e ne sacrifica altri: una forma suprema di cinismo.
Purtroppo oggi siamo ancora lontani da un traguardo umanizzante, perché i sostenitori di una via pacifica nelle controversie internazionali sono gruppi sparuti ed emarginati, e quindi ignorati dai media più diffusi. D’altra parte, come ci insegna Khun, ogni cambio di paradigma in ambito scientifico comporta difficoltà e tempi lunghi perché le vecchie concezioni persistono; altrettanto credo si possa dire nell’ambito etico-politico. Ma infine un cambio di paradigma si realizzerà, perché, con le attuali dotazioni di armi nucleari, ne va di mezzo la stessa sopravvivenza del genere umano.
Fin da ora, comunque, credo che sarebbe necessario stabilire di comune accordo, per esempio con una Conferenza di pace, le aree di influenza delle grandi potenze (USA -Cina- Russia), in modo da evitare frizioni e interventi volti a sobillare forme di ribellione o cambi di regime. E’ tempo di abbandonare la logica del potere unipolare, perché non corrisponde alle condizioni dell’economia reale. E l’Unione Europea, se volesse distinguersi dalla visione strategica della NATO, potrebbe svolgere un ruolo importante a difesa della pace, quale fondamento imprescindibile dei diritti umani.
Purtroppo si sta andando in direzione opposta, ma… la speranza è l’ultima a morire.
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