Un mondo in piazza, falò in America Latina – Puntata 2

Avvertenza per il lettore: la redazione di queste note è contestuale alla diffusione delle prime notizie relative ai contagi da Coronavirus nella regione cinese di Wuhan.
Oggi la pandemia di Covid-19 sta estendendosi al mondo intero con una velocità inimmaginabile solo poche settimane fa. Le popolazioni delle nazioni coinvolte nell’epidemia lasciano le piazze per rinserrarsi nelle loro abitazioni.
Ma dopo questo periodo di momentaneo “fiato sospeso”, le agitazioni/proteste descritte nel seguito non saranno certamente sopìte perché non saranno risolti i problemi che le hanno generate. Perciò è facile immaginare che riprenderanno vigore, con modalità ancora da scoprire.

L’America Latina è stata definita “un gigante in fiamme”.
Le proteste si estendono in buona parte del Continente, dal Messico, a nord, sino alla punta meridionale del Cile: il mitico Capo Horn.
Sono venti gli stati dell’America Latina – oltre alla Guaiana francese e allo stato Usa di Porto Rico – e di questi la metà sono percorsi da crisi sociali e politiche.
Le loro proteste sono legate, perlopiù, a diseguaglianze, corruzione, brogli elettorali e rincari soprattutto di generi di prima necessità: sono ormai alle spalle gli anni del boom economico e della stabilità politica. Superato lo scoglio delle dittature, tristemente famose, le società che si sono evolute più velocemente della politica chiedono di più alla democrazia e di essere affrancate da un neoliberismo che sta alla gola dei ceti più disagiati e fragili.

               America Latina – in rosso le crisi

Eraldo Rollando
13-03-2020

Cile
4 centesimi hanno scatenato la protesta. Proprio così, 4 centesimi sono il valore della scintilla che scocca quando la misura è colma . E’ la distanza che separa 1,01 da 1,05 Euro (da 800 a 830 pesos), la nuova tariffa della Metro di Santiago del Cile. Ed è dal 1990, epoca della dittatura di Pinochet, che il paese non registra un’ondata di proteste come questa.
Sembra assurdo, se non si tiene conto delle ragioni di un popolo che non ha ancora visto sciogliersi il nodo delle disparità sociali del post-dittatura.
Un popolo le cui condizioni economiche si possono riassumere in pochi dati: “il 70% dei lavoratori di questo Paese non arriva nemmeno a uno stipendio pari a 660 euro – in una nazione dove il costo della vita è molto simile all´Italia -; il 50% delle pensioni non raggiunge i 200 euro mensili; 11,3 milioni di persone hanno debiti con lo stato dovuti all´istruzione e alla sanità private, mentre solo l´1% della popolazione detiene il 33% del reddito nazionale.(fonte dinamo press.it)

Tutto è cominciato il 18 ottobre 2019, quando migliaia di passeggeri decisero di contestare il rincaro non pagando il biglietto. Al danno del mancato incasso, presto si aggiunse il volto violento della protesta che si concretizzò nella distruzione di buona parte di barriere e tornelli: un’ottantina di stazioni e treni della metropolitana devastati, danni per 350 milioni di dollari e circa 1500 arresti. I disordini, presto, si trasferirono sulle strade di Santiago e di altre città del paese con cittadini in rivolta al canto di “El pueblo unido jamas sarà vencido” (Il popolo unito non sarà mai sconfitto), lo slogan utilizzato in precedenza contro la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990).
Lo stato di emergenza e il coprifuoco proclamati dal Presidente Pinera non sono serviti a calmare le proteste, e la vista di migliaia di poliziotti, carabineros e carri armati in strada ha ulteriormente agitato gli animi: almeno 11 morti carbonizzati nei roghi di fabbriche e supermercati saccheggiati. A Santiago sono andati a fuoco due piani della sede di Enel Cile. Dal 18 di ottobre, in un mese di disordini, si sono registrati circa 2800 feriti tra i manifestanti e 2200 tra le forze dell’ordine;
Tutto questo per soli 4 centesimi di Euro?
Anche Sebastiàn Pinera, così come Moreno in Ecuador, non ha mancato di tirare in ballo “chi sta dietro alle rivolte”: sarebbero i sovversivi stranieri impegnati in una “guerra implacabile” contro la democrazia cilena.
Ma il vero disagio parla di pensioni indegne, sanità inefficiente, salari miseri, malattie per depressione, impieghi precari, educazione di bassa qualità, alti stipendi dell’élite politica, e delinquenza fuori controllo, mentre c’è anche chi mormora di scandali per corruzione di carabineros ed esercito.
Il popolo cileno chiede lotta alle disuguaglianze, con un’effettiva redistribuzione delle risorse nazionali, e più democrazia: una sfida che il Presidente Pinera non potrà ignorare, in quanto “L’oasi più tranquilla” (sua definizione del Cile prima “dell’ira”) in un’America Latina in ebollizione si può trasformare in qualcosa d’altro, rischioso per il paese e per i vicini.

Ecuador
L’imprevedibile caduta del prezzo del petrolio nel 2014 ridusse drasticamente le entrate pubbliche del paese, condizionando ogni politica di sostegno alle fasce più esposte della popolazione. La misura adottata dall’allora Presidente Correa fu di espandere il debito pubblico, raddoppiando l’esposizione verso i creditori: una manovra sempre azzardata, che finì per strangolare il paese nella morsa degli enormi interessi da pagare. Da qui la decisione di chiedere supporto al Fondo monetario Internazionale (FMI), il quale, come è noto, prima di erogare gli aiuti, pone delle condizioni. Per l’Ecuador, a fronte di un prestito di 4,2 miliardi di dollari USA, la contropartita si concretizzò in un pacchetto di misure, delle quali le principali sono state l’eliminazione dei sussidi ai carburanti del valore di circa 1,3 miliardi di dollari (con aumenti dei prezzi dal 20 al 100%) e la riduzione a tempo indeterminato del 20% delle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Lenin Moreno, Presidente ecuadoregno da maggio 2017, non ha potuto esimersi dall’accettare le pesanti condizioni; ma tale accettazione, come in altri casi, ha determinato tagli alla spesa sociale e stagnazione economica (le vicende greche degli ultimi dieci anni ne danno una palese testimonianza).
Contro le misure restrittive adottate dal governo equadoregno per far fronte agli impegni presi, il 3 ottobre 2019 sono partite le proteste, iniziate con scioperi e in seguito affiancate da disordini e saccheggi.
I primi e i più “rumorosi” a mobilitarsi sono stati 25mila indigeni, che hanno invaso la capitale Quito costringendo il governo a fuggire a Guayaquil, sulla costa sud ovest del paese, e a dichiarare lo stato di emergenza nazionale di 60 giorni. Il Presidente Moreno disse che tra coloro che protestavano vi erano infiltrati armati e che gli indigeni a capo della rivolta, in realtà, erano strumentalizzati dal suo predecessore Correa.
Di fatto, nel reprimere i disordini, la polizia non ha avuto mano leggera. Ma I tumulti si sono calmati solo dopo che il Presidente ebbe ripristinato i sussidi.
Per il momento è tregua, ma il clima resta teso.
Di seguito un video del Guardian che documenta i disordini.

Le ragioni della rivolta? Varie, ma principalmente la lotta per la sopravvivenza e insofferenza per l’ingiustizia.

(2, continua)
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