Israele e Palestina – Senza un giorno di pace.

Gruppo Corallo (a cura di Eraldo Rollando)
21-06-2017

“Israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi:
hanno bisogno di abbattere il muro che li divide.”
David Grossman (scrittore e saggista israeliano)

Chi potrà mai venirne a capo?
Negli ultimi cento anni, dal 1917 ad oggi, le decisioni prese dai vari attori presenti nella regione – e al di fuori di essa – nonché i fatti accaduti sul territorio, hanno creato una situazione intricatissima tale da rendere quasi impossibile riassumere il perché due popoli, aventi la lontana comune origine territoriale, continuino a combattersi.
Se alziamo lo sguardo a questo 2017 , notiamo che la situazione territoriale vede due popoli che occupano tre porzioni del territorio israelo – palestinese:
– La Striscia di Gaza, con una popolazione di circa 1.8   milioni di persone è abitata dai palestinesi, sotto il controllo di Hamas, un partito estremista di ispirazione religiosa sorto nel 1987, che non rinuncia al terrorismo e “pretende” la distruzione di Israele
– La Cisgiordania (chiamata in inglese West Bank), è abitata dai palestinesi e da numerosi insediamenti ebraici sparsi a “macchia di leopardo”, sotto il controllo parziale dell’Autorità Nazionale Palestinese – ANP. Il Presidente, Abu Mazen, che ha il riconoscimento internazionale, è sostenuto dal partito laico e moderato Al-Fatah, nato nel 1958 come movimento clandestino di guerriglia, che cerca di trovare un accordo di convivenza; la Cisgiordania ha una popolazione formata da circa 2.6 milioni di palestinesi e circa 400 mila coloni israeliani.
– Israele è abitata dagli israeliani e arabo-israeliani, con un totale di circa 6.7 milioni di persone.
Le zone palestinesi sono dotate di una loro autonomia amministrativa (vengono svolte regolari elezioni) ma, pur mantenendo un loro Corpo di polizia, sono sottoposte ad molte limitazioni di interesse strategico quali, ad esempio, Sicurezza interna ed Esercito, dal governo centrale dello Stato di Israele. La disparità di condizioni è macroscopicamente evidente: i due popoli non hanno la stessa sovranità. Questa situazione ha generato una falsa impressione di sicurezza agli israeliani e un forte senso di frustrazione ed oppressione fra i palestinesi. Non bisogna dimenticare, inoltre, che fra i due più importanti raggruppamenti politici, Hamas e Al-Fatah, non scorre buon sangue, e ciò rende la situazione ancora più complicata; Hamas, nel 2006, ha vinto le elezioni legislative palestinesi nella Striscia di Gaza, scalzando il partito di Abu Mazen ritenuto troppo “tenero” verso gli israeliani; nel 2007 Abu Mazen ha messo fuori legge Hamas per le sue posizioni estremiste. E’ evidente che una politica unitaria palestinese non è più possibile .

Ma, tra israeliani e palestinesi, dove sta la ragione e dove il torto?
La guerra arabo-israeliana del 1948, di cui si parla in seguito, può, con buona ragione, rappresentare la sintesi di come torto e ragione possono essere distribuiti equamente. Ma, da allora, la situazione è precipitata in un gorgo di reciproche accuse e azioni belliche.
Solo uomini di grande carisma e di buona volontà potranno, un giorno, dipanare la matassa, cercando una pace senza vendette e senza i condizionamenti dei propri sostenitori esterni; purtroppo, oggi nel 2017, non se ne vedono ancora all’orizzonte.
Un buon esempio è stata la pace stabilita tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, dopo una guerra “leggera” durata circa 25 anni, dal 1970 al 1995, che ha lasciato sul terreno 3.000 morti e un numero imprecisato di feriti; i problemi non erano gli stessi, ma vi sono molte analogie fra le quali il grande rancore reciproco.
I maggiori ostacoli al percorso di pace sono rappresentati, in primis, dalla politica dei vari governi israeliani che si sono succeduti, oggi fatta propria e resa ancora più dura dall’attuale primo ministro Netanyahu, che hanno perseguito il continuo sviluppo degli insediamenti dei coloni , in particolare, in Cisgiordania, disarticolando e disconnettendo le comunità arabe locali. In questa parte del territorio i coloni hanno, di fatto, organizzato un controllo strategico con la costruzione di strade di collegamento autonomo rispetto ai villaggi palestinesi , postazioni militari e blocchi stradali . La rete idrica e quella elettrica della Cisgiordania viene collegata a quella israeliana, ottenendone il pieno dominio. Viene attuata una politica che fa dipendere l’economia palestinese sempre di più da quella di Israele, esercitando un controllo delle risorse pressoché totale. Molti palestinesi lavorano in Israele, dedicandosi ai lavori più umili, con paghe molto più basse dei loro omologhi israeliani, e ogni volta che , a causa di qualche attentato vengono chiusi i passaggi fra le due comunità, Israele fa mancare a quelle persone, a quelle famiglie l’unica fonte di sostentamento; succede in Cisgiordania e, in modo maggiore a Gaza, dove la disoccupazione supera il 40%.
Il secondo ostacolo maggiore è stato l’aver proclamato Gerusalemme capitale unica e indivisibile, occupata definitivamente nel 1967 con la guerra dei sei giorni.
Gli avvenimenti che si sono succeduti in Palestina, soprattutto nel secondo dopoguerra, hanno subito, per buona parte, il condizionamento del cosiddetto periodo della Guerra Fredda ; che ha visto Usa ed Europa occidentale (non tutta) sostenere gli israeliani, in contrapposizione a Russia e Europa orientale (assieme al mondo arabo) sostenitori dei palestinesi.
Non si è tenuto, e tuttora fa difficoltà a tenersi, lo sguardo lucido alle esigenze reali dei due popoli;
Per capire le ragioni dei due “contendenti”, non si può non tenere conto dei fatti più importanti che si sono succeduti nel tempo e scorrere le principali tappe di questo incontro/scontro.

Cronologia degli ultimi 100 anni, 1917-2017

1896 – Prima idea di “una patria per Israele in Palestina”
In quell’anno , Theodor Herzl, giornalista e scrittore ebraico-ungherese naturalizzato austriaco, in un articolo pubblicato dal Jewish Chronicle, reclamava una “casa” per tutti gli ebrei dispersi nel mondo, pensando di raccoglierli in Palestina, all’epoca sotto il dominio turco, ricordando che quella era già stata la terra dei loro padri. L’idea, nel tempo, si era diffusa e aveva ricevuto il placet di molte persone influenti.
Herzl è stato il fondatore del sionismo, un movimento politico che aveva l’obiettivo di creare uno stato ebraico, appunto, in Palestina. Il sionismo è stato ripetutamente messo sotto critica, sino ad essere bollato da una risoluzione ONU del 1975 come “ una forma di razzismo e discriminazione razziale “, successivamente revocata. La parola sionismo ha origine dalla collina di Sion, sulla quale è posta la parte vecchia di Gerusalemme.
1917 – La Gran Bretagna rilancia l’idea
Si era nel pieno della prima guerra mondiale, il primo ministro inglese Balfour, riprendendo l’idea di Herzl, sostenne che era giunto il tempo di dare al popolo ebraico “ un focolare”. E’ stato un nobile sentimento, ma rappresentava, purtroppo, una promessa che non poteva legalmente competere alla Gran Bretagna. Balfour, nello stesso tempo, sottolineava che non si doveva recare pregiudizio o danno ai diritti politici e religiosi delle comunità non-ebree residenti. Anche questa idea nobile ma ingenua. La nota fu inviata il 2 novembre 2017 a Lord Rothschild, allora visto come principale rappresentante della comunità ebraica inglese. (Dichiarazione Balfour)
Con la fine della prima guerra mondiale e la frantumazione dell’Impero Turco la Palestina, che di questo faceva parte, diventò un Mandato del Regno Unito di Gran Bretagna su incarico dell’allora Società delle Nazioni (in seguito divenuta Onu). Da qui si tornò all’idea di Balfour. E da quel momento iniziarono le prime migrazioni di ebrei.
La crisi del 1919 ebbe, nel seguito, forti ripercussioni anche in Palestina: molti contadini arabi, impoveriti dalla crisi, furono costretti a vendere i loro terreni agli ebrei più facoltosi, di modo che parte del territorio passò, legittimamente, in mano ebraica; questo fatto portò nel 1921 alla creazione di piccoli insediamenti come i Moshav , fattorie cooperative, e i Kibbutz, una sorta di cooperative di stampo socialista in cui non circolava denaro ma si scambiavano i beni.
Fu il periodo in cui ebbe inizio la prima frattura tra le due comunità: quella arabo-palestinese e quella ebreo-sionista, facendo nascere i primi due nazionalismi contrapposti. La ragione principale era legata a fattori di carattere economico, in quanto negli insediamenti ebraici veniva utilizzata manodopera locale a basso costo; questa prassi avrebbe presto depresso l’economia di quell’area, scoraggiando ulteriori immigrazioni di lavoratori ebrei abituati a retribuzioni molto più alte.
Fu nel 1936 che si ebbe una svolta demografica a vantaggio degli ebrei, dalle successive ripercussioni di forte impatto sociale.
A seguito del possesso di maggiore estensione di territorio, l’immigrazione si rinvigorì sino a raggiungere livelli tali che nel 1936 la popolazione ebraica raggiunse il 31 percento dell’intera popolazione di Palestina.
1936 – Rivolta degli arabo-palestinesi contro la Gran Bretagna
In quell’anno scoppiò una rivolta della popolazione arabo-palestinese contro l’occupazione e il progetto di distruggere la millenaria civiltà palestinese per creare una colonia per ebrei europei. Fu messo in atto un grande sciopero generale che bloccò la Palestina per 6 mesi.
Gli inglesi, che allora reggevano il Mandato della Società delle Nazioni, non sapendo che partito prendere, pensarono di reprimere a loro modo: con grande presunzione e sanguinosa violenza.
La popolazione palestinese non era formata solamente da contadini, che pagarono con il sangue la rivolta,ma anche da intellettuali e leader di vario genere che si trovarono a essere uccisi o esiliati.
1947 – Prima guerra civile israelo-palestinese e nascita dello Stato di Israele
Dopo la fine della seconda guerra mondiale si ebbero ulteriori ondate migratorie (è bene qui ricordare la “diaspora” della gente ebraica, frutto della dispersione già avvenuta durante i regni di Babilonia e sotto l’impero romano), che andarono a ingrossare la popolazione ebraica. L’insofferenza alla presenza britannica in Palestina prese corpo anche tra gli immigrati ebrei che diedero inizio, a quel punto, alle prime azioni armate, anche di carattere terroristico, soprattutto da parte ebreo-sionista estremista, contro i militari e funzionari inglesi, per ottenere maggiore autonomia.
La Gran Bretagna, non avendo particolari interessi a rimanere sul posto, rimise il Mandato in mano alla Società delle Nazioni.
Il 27 novembre 1947 a seguito della Shoah, con lo sterminio di circa 6milioni di ebrei ad opera del Terzo Reich, l’ ONU (nata nel 1945 sulle ceneri della precedente Società delle Nazioni) deliberò la soluzione “Due Stati indipendenti” con la risoluzione numero 181, che prevedeva la divisione del territorio in due parti: il 54 percento agli ebrei e il 46 agli arabi, con un macchinoso sistema di ripartizione del territorio.
A quel punto iniziò subito la prima “mischia”: fra le due comunità si scatenò la prima guerra civile per accamparsi la maggior parte dei territorio. Israele vinse la scontro e, il 14 maggio 1948, venne proclamata da David Ben Gurion

David Ben Gurion – Primo capo del governo di Israele

la nascita dello Stato di Israele, che fu subito riconosciuto dalla maggior parte degli Stati occidentali, mentre gli Stati arabi dichiararono l’intento di creare uno “Stato unitario di Palestina” al posto dei due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, minacciando di entrare in Palestina . (Dichiarazione della nascita dello Stato)
1948 – Le cose si complicano: Il conflitto diventa arabo-israeliano
Le reazioni negative di Israele, Stati Uniti e Unione Sovietica convinsero Egitto e Giordania a scendere in guerra contro Israele, a fianco degli arabo-palestinesi, sostenuti anche dalla Lega araba e dalla Cina. La conseguenza di questo intervento ebbe un risultato quasi surreale: Israele occupò tutta la Galilea sino al confine con il Libano, l’Egitto occupò la zona di Gaza e la Giordania occupò la Cisgiordania . I palestinesi persero tutto e rimasero senza Stato; 957mila di loro (fonte: Dipartimento di Statistica palestinese) furono costretti a emigrare nei Paesi arabi vicini, accolti prevalentemente in campi profughi di Giordania e Libano, dando origine al contenzioso dei “Rifugiati palestinesi” tuttora in essere, e arrivati, nel frattempo, a circa 5 milioni.
Gli israeliani, di contro, subirono una vera e propria pulizia etnica (anche se limitata nei numeri): a Gerusalemme est e in Cisgiordania non rimase neanche un ebreo.
Molte tensioni si erano ormai sviluppate nell’area. Gli scontri tra ebrei e palestinesi si erano trasformati dopo il 1948, come abbiamo visto, nel conflitto tra Israele e Paesi arabi, alimentando quella serie di reciproche ritorsioni che ancora oggi non sono cessate.
I paesi arabi, Egitto in prima linea, iniziarono a sentire l’occidente come un blocco coalizzato contro di loro individuando in Israele la punta avanzata. Prese corpo il rifiuto di riconoscere Israele e iniziò un boicottaggio economico.
1956 – La crisi di Suez .
Nuove tensioni si stavano accumulando al confine tra Egitto e Israele.
Il 26 luglio del 1956 il Presidente egiziano Nasser annunciò, presentandosi ad un comizio con una grande risata (che purtroppo non è più reperibile sui media), la nazionalizzazione del Canale di Suez; le ragioni furono prevalentemente economiche, in quanto i passaggi delle navi fruttavano grossi introiti a chi deteneva i diritti di passaggio. Ma, essendo il Canale una via di traffico navale internazionale, che l’occidente considerava virtualmente propria, si temette la scoppio della Terza guerra mondiale. Lo schiaffo portato agli interessi economici di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna fu forte ma, fortunatamente, la guerra non scoppiò. Scoppiò, invece, una guerra locale che coinvolse da una parte l’Egitto e dall’altra Israele affiancato da Francia e Gran Bretagna.
Il 29 ottobre 1956 l’esercito israeliano, in risposta a Nasser, lanciò l’invasione del Sinai, mentre la forza aerea britannica attaccò l’aviazione egiziana al Cairo distruggendola. Gli americani però spingono per una soluzione pacifica della crisi.
Il 7 marzo 1957 l’ONU, dopo avere intimato a Israele il ritiro delle truppe, inviò una forza internazionale di pace: quel corpo di interposizione che da quel momento, per il colore dei loro elmetti, verrà chiamato “Caschi Blu”.
Nel 1958 nasce Al-Fatah, come movimento clandestino di guerriglia per la liberazione della Palestina.
Maggiori dettagli sulla crisi di Suez al link 
1967 – La guerra dei “sei giorni”
Questa guerra è rimasta famosa per le sue azioni fulmine e la sua breve durata: Israele strappò la Cisgiordania alla Giordania, le alture del Golan alla Siria (da dove la Siria bombardava sistematicamente i villaggi israeliani). Occupò definitivamente il Sinai e la Striscia di Gaza e, cosa più importante, acquisì definitivamente Gerusalemme (che prima divideva con la Giordania) dichiarandola capitale indivisibile dello Stato. Si trattò non solo di un’azione di conquista territoriale ma, anche, di una dimostrazione di forza ed efficienza bellica nei confronti dei Paesi arabi sostenitori dei palestinesi.
Nei combattimenti le perdite furono di oltre 15 mila soldati egiziani, alcune migliaia di giordani, circa 1000 siriani e 760 israeliani.
Con questi fatti il mondo cominciò a vedere Israele come un’Entità compiuta, nonostante i due gruppi sul terreno vedessero la questione con ottica diametralmente opposta. Gli ebrei vedevano una casa comune, i palestinesi un sopruso fatto di violenza e intimidazioni. Ma i Paese arabi iniziarono a reclamare la restituzione dei territori occupati da Israele.
L’ONU cercò di intervenire con la risoluzione del Consiglio di sicurezza n 242 . Essa prevedeva che Israele si ritirasse nei confini, così come erano prima della “guerra dei sei giorni” e i Paesi arabi riconoscessero a Israele il diritto di esistere. Fu una risoluzione pasticciata, in quanto ad Israele non fu detto cosa doveva fare con i territori occupati in precedenza alla guerra e i Paesi arabi non furono “costretti” a firmare veri trattati di pace. Doveva essere la soluzione “terra in cambio di pace”, ma non funzionò
1973 – Guerra del Kippur
il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, una delle più importanti festività ebraiche, Egitto e Siria, nell’intento di ricuperare i territori occupati da Israele nel 1967, sferrano un attacco a sorpresa. La reazione israeliana, inizialmente scomposta, in tre settimane ebbe ragione degli avversari; i rispettivi eserciti dovettero ritirarsi entro i propri confini con un nulla di fatto.
Successivamente, l’intervento dell’ONU impose a Israele di cedere una striscia di confine con la Siria, sulle altura del Golan, per creare una zona demilitarizzata e presidiata, tuttora, dai Caschi Blu delle Nazioni Unite
1979 – La pace di Camp David tra Egitto e Israele
Fu il presidente egiziano Anwar al-Sadat a fare la prima mossa: nel novembre del 1977 si recò a Gerusalemme per incontrare l’allora primo ministro israeliano Begin, noto per le sue posizioni intransigenti sulla restituzione delle terre ai palestinesi.
Lo scopo era di posare la prima pietra per intraprendere negoziati di pace tra Egitto e Israele, e creare le premesse per una pace duratura in tutto il Medio Oriente.
Gli incontri successivi ebbero il sostegno del Governo degli Stati Uniti e il 17 settembre 1978, dopo 12 giorni di trattative segrete a Camp David, una località statunitense, si pervenne ad un accordo che fu poi firmato alla Casa Bianca, da Sadat (Egitto), Begin (Israele) e l’allora presidente americano Jimmy Carter.

Sadat e Begin con al centro il Presidente USA Carter

 

Per questo accordo, in seguito, a Sadat e Begin venne riconosciuto il premio Nobel per la pace.
Con la firma del trattato di pace, Israele restituì la penisola del Sinai all’Egitto, ma non Gaza, ottenendo in cambio la possibilità di transito delle sue navi nel Canale; fu stabilito il principio di una “autorità eletta ed autonoma” a Gaza e in Cisgiordania, aprendo la via all’autodeterminazione araba palestinese. Non venne discussa la questione di Gerusalemme, lasciando in essere uno dei contenziosi più seri.
Nel mondo arabo, l’Egitto pagò duramente questa svolta pacifista con l’accusa di tradimento della causa araba: subì la “condanna” all’isolamento e l’espulsione dalla Lega Araba nel marzo del 1979.
In definitiva l’unico successo, non trascurabile, fu la pace con l’Egitto, ma l’obbiettivo di pacificazione dell’area medio orientale fu un fallimento.
1980 – Operazione “Collera di Dio”
Fu un’operazione segreta attuata dal Mossad (Servizi segreti di Intelligence israeliani) per colpire, in tutto il mondo, i presunti responsabili diretti e indiretti del massacro di 11 atleti israeliani alle olimpiadi estive di Monaco di Baviera nel 1972. I principali bersagli erano Settembre Nero e l’Olp. L’Operazione, a quanto si sa, si è protratta per oltre un ventennio per colpire i terroristi anti-israeliani, in Israele e nel mondo, e ridurre la minaccia su Israele stesso.
1987 – Prima “Intifada”, l’Intifada delle pietre e il Muro di Gaza
La Rivolta, questa è la traduzione letterale di Intifada, avvenne nel campo profughi palestinese di Jabaliyya, una zona quattro chilometri a nord di Gaza; lo spunto è stato l’incidente in cui morirono quattro palestinesi investiti da un camion israeliano. Presto si estese a tutta la Striscia, Gerusalemme Est e alla Cisgiordania, occupate da Israele 20 anni prima, nel 1967 con “la guerra dei sei giorni”.
Il forte malcontento, la situazione oppressiva e la mancanza di prospettive politiche venutesi a creare diedero il via ad una serie di manifestazioni, scontri, cortei e sassaiole; durante i sei anni di Rivolta si sono registrati 1258 morti fra i palestinesi e 150 fra gli israeliani.
Per creare una fascia di sicurezza con la quale controllare i movimenti dei palestinesi, Israele decise la costruzione del primo Muro tutto attorno al territorio palestinese. La Striscia vive, da allora, un clima d’assedio e rappresenta una prigione a cielo aperto. E’ il luogo di maggiore densità abitativa al mondo e il transito nei punti di passaggio è regolato dall’esercito israeliano, che li può chiudere a proprio giudizio. Nei periodi di maggiore turbativa sociale la Striscia, che dal 2006 è governata da Hamas, la fazione palestinese più avversa a Israele, viene “sigillata” senza alcuna possibilità di entrata o uscita; lo spazio aereo viene interdetto e il mare è pattugliato dalle navi militari con la Stella di David. I danni per il mancato rifornimento di merci, soprattutto alimentari, sono grandi e il blocco dei lavoratori transfrontalieri che vanno in Israele fa mancare anche le poche risorse economiche.
1993 – Riconoscimento reciproco tra Israele e Olp. Gli accordi di Oslo
L’Olp – Organizzazione per la liberazione della Palestina – nasce nel 1964, con sede a Ramallah in Cisgiordania, come “legittima rappresentante del popolo palestinese” su ispirazione della Lega Araba. Il suo obiettivo era la liberazione della Palestina con la lotta armata.
Dal 1969 al 2004 ne è stato presidente Yasser Arafat. Sino al 1993 fu considerata una organizzazione terroristica, per gli attentati messi in atto, soprattutto dalla galassia di sigle e sottogruppi che la componevano, sia in Israele che fuori.
Il 20 agosto 1993, a Oslo, venne stipulato un nuovo accordo tra l’allora primo ministro israeliano Rabin e Arafat che poneva le basi per un reciproco riconoscimento e il tentativo di attuare il principio “due popoli, due stati”.
A seguito di questo, Arafat, in una lettera ufficiale, dichiarò di riconoscere politicamente lo Stato di Israele e di “garantire la sua esistenza pacifica e sicura”. In risposta alla lettera, pur di avere una controparte politica con cui trattare, Israele riconobbe l’Olp come rappresentante del popolo palestinese. L’Olp ottenne il riconoscimento dell’autogoverno della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con la creazione dell’ Autorità Nazionale Palestinese e venne annullata l’etichetta di “organizzazione terroristica”.
A seguito degli accordi di Oslo, l’OLP ottenne, in numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU, il riconoscimento di sola rappresentante legittima del popolo palestinese.
In Israele le reazioni furono contrastanti: forte scetticismo e disappunto fu manifestato da parte di molte persone, tra le quali molti autorevoli esponenti politici (fra i tanti, l’ex-Primo Ministro Benjamin Netanyahu).
Dal 2004, dopo la morte di Arafat, Abu Mazen è presidente dell’ Autorità Nazionale Palestinese .
2000 – Seconda “Intifada”, l’intifada di Al Aqsa
Dopo il fallimento degli accordi di Camp David del 1979, e il tentativo – anche quello fallito – dell’allora Presidente USA Bill Clinton di trovare una soluzione, scoppiò la seconda Rivolta. Questa volta la miccia fu innescata dalla storica passeggiata dimostrativa del 28 settembre 2000 da parte dell’ex generale israeliano Ariel Sharon, capo del Likud (partito nazionalista di centro-destra), in quel momento all’opposizione, sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme; luogo sacro a israeliani e arabi. Sulla Spianata sorge la moschea di Al Aqsa, edificata sulle rovine del Tempio ebraico di Gerusalemme, incendiato dai Romani durante la loro dominazione.
La Spianata è un luogo sacro per i palestinesi in quanto, secondo un versetto del Corano, da lì il profeta Maometto salì al cielo nel 621 circa. La situazione è complicata dal fatto che una parte dei muri che circondano la moschea fanno parte del Muro Occidentale , detto anche Muro del Pianto, venerato dagli ebrei.
La protesta dei palestinesi alla “dissacrazione” di Sharon fu immediata, con l’attuazione di numerosi attentati suicidi: la polizia israeliana come reazione sparò sui dimostranti, procurando alcuni morti. I fatti che si sono succeduti dal 2000 al 2005 hanno lasciato sul terreno circa 3800 palestinesi e 800 israeliani. Più di 2000 case palestinesi vennero abbattute dall’esercito israeliano.
Il capo dell’ Olp, Yasser Arafat, venne confinato dal dicembre 2001 a Ramallah, in Cisgiordania, che lascerà solo nell’ottobre 2004 per la Francia dove morirà poco dopo.
Grande risonanza mondiale ebbe, nel 2002, l’assedio alla Basilica della Natività a Betlemme da parte dell’Esercito israeliano. All’interno della Basilica aveva trovato rifugio un folto gruppo di resistenti palestinesi (tra questi diversi appartenenti ad Hamas e Al-Fatah), per sfuggire alla cattura.
Il fatto, che destò grande scalpore soprattutto in ambito cattolico, coinvolse circa 200 persone tra le quali il governatore di Betlemme e una quarantina di monaci; durante il periodo dell’assedio vi furono sporadiche sparatorie con otto vittime palestinesi e feriti da ambo le parti.
Dopo 39 giorni di trattative a vari livelli (vennero coinvolte le cancellerie europee e quella vaticana), la vicenda si concluse con un compromesso; venne deciso l’esilio di tutti i palestinesi presenti: alcuni di essi trovarono rifugio anche in Italia.
2002 – 2006 Costruzione dei Muri attorno alla Cisgiordania
Durante la seconda Intifada, il governo israeliano progettò e attuò la costruzione di un muro, definito eufemisticamente “chiusura di sicurezza israeliana” . Lo scopo dichiarato era quello di evitare infiltrazioni in territorio ebraico. E’ stato più volte modificato e ridisegnato a seguito di pressioni sia interne a Israele che internazionali.

Si tratta di una barriera lunga circa 750 chilometri, che avvolge completamente la Cisgiordania, il cui percorso viaggia, in molti punti, zigzagando per includere o escludere porzioni di territorio il cui interesse prevalente sembra essere, per Israele, più economico che protettivo. La barriera è costituita in parte da muro in cemento armato e in parte da barriera di filo spinato. L’attraversamento è regolato da porte elettroniche.
E’ stato definito “il muro della vergogna”: rappresenterebbe, per Israele, il tentativo di annettersi parte dei territori palestinesi. Parte del tracciato è, in fatti, situato all’interno di questi territori, inglobando una grande quantità di pozzi d’acqua.
Inoltre, per le sue caratteristiche di concezione moderna, il muro consente di tenere lontani eventuali terroristi ma rende impossibile l’attraversamento alla popolazione palestinese, finendo creare una prigione a cielo aperto.
Un muro analogo venne costruito attorno alla Striscia di Gaza all’epoca della prima Intifada (1987).
Dicembre 2008 – Operazione “Piombo fuso”
Nel 2007 vi fu un nuovo tentativo di pace fra Abu Mazen e Olmert, l’allora primo ministro israeliano.
I colloqui non ottennero alcun risultato a causa di Hamas, che iniziò il lancio di razzi Qassam (razzi rudimentali e artigianali di cortissima gittata) contro obiettivi civili nel sud di Israele; il pretesto ufficiale fu quello delle ripetute violazioni delle tregue da parte israeliana, ma con l’obiettivo non dichiarato di fare fallire il tentativo stesso.
Di fatto, le tregue sono state ripetutamente violate da ambo le parti ma esiste, in questo campo, una schiacciante preminenza di Israele (vedi sotto, alla voce: “Chi viola il cessate il fuoco?”)
Israele fra dicembre 2008 e gennaio 2009 lanciò un nuovo attacco su Gaza denominato “Piombo fuso”. La Striscia venne completamente isolata e sigillata. L’esercito effettuò arresti e pesanti bombardamenti con un duplice obiettivo: il primo di decapitare la dirigenza di Hamas e il secondo di distruggere i tunnel scavati sotto il confine per fare transitare ogni genere di merce, compreso armi, dall’Egitto verso la Striscia; nonché i tunnel attraverso i quali da Gaza si infiltravano terroristi e sabotatori in Israele.
Varie Associazioni internazionali, tra le quali Amnesty International, Human Right Watch e la Croce Rossa Internazionale, hanno denunciato che l’esercito israeliano utilizzò bombe al fosforo bianco, un armamento vietato dalle convenzioni internazionali in quanto procura gravi ustioni interne e la morte . La Diplomazia israeliana ha sempre negato questo fatto ma le evidenze portate convinsero, alla fine, i membri dell’esercito ad ammettere il loro utilizzo e a interromperne l’impiego.

2012-2014 – Ancora Gaza sotto le bombe
Visto il perdurare di lanci di razzi sui villaggi vicino alla Striscia da parte di Hamas, Israele intervenne con altre due operazioni della stessa intensità e obiettivo: “Colonna di nuvola” e “Margine protettivo”.
Si può immaginare come fosse possibile selezionare gli obiettivi militari in un territorio così densamente popolato; il risultato di 51 giorni di scontri dell’operazione “Margine protettivo” fu l’uccisione di circa 2.300 palestinesi, fra i quali 500 bambini; il ferimento di 11.000 civili fra i quali 3.000 bambini; 100.000 sfollati.
Dal 2014 Gaza è in una situazione di “non guerra”, ma rappresenta un barile di dinamite pronto a esplodere.
La situazione abitativa è drammatica: si parla di circa 47.000 abitazioni parzialmente distrutte e altre 15.000 completamente distrutte. La ricostruzione è ferma non essendo disponibili finanziamenti propri, e quelli promessi dai paesi donatori alla Conferenza del Cairo – ottobre 2014 con la presenza di una trentina di ministri degli esteri e 50 delegazioni, oltre alla presenza dell’Onu (5,3 miliardi di dollari) – non sono all’orizzonte.
Nonostante la situazione di vita al limite dell’impossibile, nel primo semestre 2016 a Gaza si è registrato un boom di nascite, con 29.140 nuovi nati.
Padre Raed Abusahlia, direttore generale di Caritas Jerusalem, parlando al Sir (Servizio di Informazione Religiosa) nella città santa, afferma: “La situazione è drammatica, la gente è triste, segnata da guerre continue di cui paga un prezzo altissimo. Non si possono costringere 1,5 milioni di persone dentro una gabbia. Gaza è una prigione a cielo aperto da quando, nel 2007, Israele ha imposto il blocco. La vita quotidiana è sempre più difficile, con sole 4 ore di energia elettrica al giorno, senza acqua potabile, senza fognature, senza medicine, scuole distrutte, senza poter entrare e uscire”; e ancora: “Aspettiamo la prossima guerra di Gaza. Non tarderà ad arrivare. È già scritta. Basta solo una piccola scintilla al confine per accendere l’incendio” (fonte: lavocedeltempo.it)
Ma la situazione dell’approvvigionamento energetico rischia di precipitare; ne dà notizia il 13 giugno 2017 l’Agenzia AsiaNews.it, che segnala la volontà di Israele di ridurre la fornitura elettrica a Gaza, mentre le autorità palestinesi si lanciano accuse reciproche.
Attualmente le fonti di rifornimento sono, o meglio, erano:
una centrale egiziana, situata nei pressi del confine,
una centrale palestinese all’interno della Striscia di Gaza,
sei linee elettriche provenienti da Israele.
Ma,
– La centrale egiziana non eroga più energia, pare a causa di guasti tecnici.
– La centrale di Gaza è ferma per mancanza di carburante.
– Israele vuole ridurre i suoi rifornimenti alla Striscia del 40%, come risposta alla decisione dell’ANP di pagare solamente il 60% della bolletta elettrica per Gaza.
La notizia al link di AsiaNews e l’approfondimento all’articolo “Scende la notte su Gaza”
Con il boom delle nascite nel 2016, potrebbe essere la bomba demografica di Gaza a portare allo scontro finale tra Hamas e Israele: con la definitiva estinzione della popolazione nella Striscia?
Chi viola il cessate il fuoco?
Secondo le indagini di Peacelink.it (Peace Link è una libera associazione di volontariato dell’informazione), le violazioni delle tregue nel periodo 2000-2008 sono così state conteggiate :
– periodo di tregua inferiore alla settimana: nel 79% da Israele, 8% dai palestinesi, 13 % contemporaneamente da ambedue le parti.
– Periodo di tregua superiore alla settimana (25 periodi di tregua esaminati): 96% da Israele
– Periodo di tregua superiore a 9 giorni (14 periodi esaminati): 100% da Israele
La nota Associazione B’Tselem – Centro Israeliano di informazione sui diritti umani nei Territori occupati calcola che, solo nel periodo 2000-2010, 6404 palestinesi sono stati uccisi da israeliani e 1080 israeliani uccisi da palestinesi.

Quindi, Quale futuro?
Come già detto all’inizio la situazione è intricatissima e, dato il cumulo degli errori stratificatisi nei cento anni trascorsi da quell’incauta, a dir poco, posizione britannica del 1917, sarebbe semplicistico assegnare una pagella ai due contendenti.
In relazione alle guerre israelo-palestinese e arabo-israeliana degli anni 1947-48, il giornalista e scrittore franco-libanese Amin Maalouf, nel suo romanzo “Gli Scali del Levante” (Bompiani Editore), fa dire al protagonista: “… che due popoli detestati da Hitler si ergessero l’uno contro l’altro, giungendo fino ad ammazzarsi, essendo persuaso ciascuno di essere perfettamente nei propri diritti. Gli ebrei perché avevano da poco subito ciò che di peggio può conoscere un popolo, un tentativo di annientamento, e perciò erano determinati a mettere in opera ogni cosa perché un fatto simile non si ripetesse mai più; gli arabi perché quel male veniva in qualche modo riparato a loro spese, mentre non c’entravano in alcun modo in quel crimine perpetrato in Europa.”
La tragedia di quei due popoli sta proprio in quelle parole “essendo persuaso ciascuno di essere perfettamente nei propri diritti” e in punta di diritto ogn’uno dei due ha cercato, e cerca, di spingere l’altro nel mare Mediterraneo.
L’ Occidente, con la coscienza lacerata dagli orrori perpetrati a danno degli ebrei, ha finito per guardare al Medio Oriente con gli occhi strabici. Ha permesso che si sviluppasse una seconda tragedia: quella palestinese. Si sviluppò, principalmente, nei primi anni ’50 del XX secolo. Fu in quel periodo che la popolazione di Palestina perse la sua identità, lì fu negata la sua storia e, con l’occupazione israeliana, iniziò il processo di disumanizzazione. In quel periodo iniziarono le confische dei terreni, le uccisioni immotivate, il furto del futuro e della speranza. I fatti successivi sono stati un continuo crescendo di cruente ritorsioni e rivalse, che hanno trasformato quella che una volta era chiamata Terra Santa in una terra di morte, e il primato di tutto ciò spetta, senza dubbio, a Israele.
Il Testo della Dichiarazione della nascita dello Stato di Israele, redatto e firmato il 14 maggio 1948, cita: “Lo Stato d’Israele … assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Visto con gli occhi del dopo, forse vale solo per i “nostri”
Certamente una cosa si può dire: se come Paesi democratici, e come Israele afferma di essere, crediamo nell’autodeterminazione dei popoli, allora si conceda al popolo palestinese la facoltà di determinarsi come popolo libero e a quello israeliano di sentirsi sicuro nei propri confini.

“Due popoli, due Stati” è sicuramente un obiettivo da raggiungere ma, come andare verso questa visione se ogni volta che se ne parla Israele muove un passo preventivo in avanti, cercando di accaparrarsi più terra possibile?
L’idea che Israele sia un Paese colonialista (di vecchio stampo europeo) è avanzata da molti. Se ne parla a bocca chiusa, per non essere tacciati di essere comunisti e antisemiti, ma nei fatti il comportamento del Paese è questo; non si spiegherebbero, altrimenti, i continui insediamenti di coloni in territori palestinesi (in Cisgiordania e a Gerusalemme Est si sono cumulati circa 4000 insediamenti).
I diritti umani, il rispetto dei diritti civili, il rispetto delle leggi internazionali dovrebbero essere il faro che guida le vite di ciascuno. Israele, Nazione estremamente forte sia economicamente che militarmente rispetto alla Palestina, questa resa ormai debole da ogni punto di vista, sembra volere usare solo la forza militare, ignorando volutamente che è da posizioni di forza che si possono avviare trattative serie con serie prospettive di successo.
Ma forse per Israele, data la sua forte influenza economico-militare sull’area medio – orientale, non ha più bisogno della formula “terra in cambio di pace”. Le Nazioni arabe vicine, forse anche per la minaccia terroristica al loro interno, si stanno disinteressando sempre più della Palestina. Rimane l’ONU: vox clamans in deserto.
Il 23 dicembre 2016 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato a maggioranza (14 sì su 15, astenuti gli Stati Uniti) l’ennesima risoluzione in cui si definiscono gli insediamenti israeliani nei cosiddetti territori occupati, già dal 1967, aventi “nessuna validità legale” e una “flagrante violazione delle leggi internazionali”.
(dal Sito ONU “… which states that the establishment of Israeli settlements in Palestinian territory occupied since 1967, have “no legal validity,” constitute a “flagrant violation” under international law and are a “major obstacle” to a two-State solution and a just, lasting and comprehensive peace.”)
Le risoluzioni ONU non sono vincolanti per gli stati membri, ma hanno un alto valore simbolico.
Il governo israeliano ha diffuso una nota definendo, ancora una volta, “vergognosa” la risoluzione e dichiarando che non la rispetterà (dal 1951 sono state decine le risoluzioni non rispettate; quasi tutte).
Allora, cosa può aspettarsi Israele? Abbiamo già visto sopra il boom demografico a Gaza. Quanto tempo occorrerà perché il boom demografico all’interno dei Territori e a opera, anche, degli arabi residenti in Israele diventi un problema demografico esplosivo? Sembra, però, che Israele non consideri questo come un pericolo; non tanto lontano, per la sua sopravvivenza. Ma è sopravvivenza che dura sino al “giorno dopo”, contando su una simpatia internazionale che sta scemando a vista d’occhio.

Alcuni siti, per approfondimenti:
in lingua inglese,
http://www.btselem.org/index.asp
http://www.jewishvoiceforpeace.org
http://www.kibush.co.il
shalom.org/index_en.html
http://www.palestine-studies.org/

in italiano

OLTRE LA LINEA ROSSA. E’ VERGOGNOSO!


http://www.israele.net/
http://www.infopal.it/
https://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2017/05/05/processo-pace-palestina-israele
http://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/44076.html
http://www.asianews.it/notizie-it/Israele-riduce-la-fornitura-elettrica-a-Gaza.-Le-autorità-palestinesi-si-accusano-l’un-l’altra-41004.html
http://www.huffingtonpost.it/2017/06/14/la-grande-prigione-di-gaza-dieci-anni-dopo-la-conquista-di-hamas_a_22199294/

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