Un Mondo in piazza: Africa – Puntata 6

In questi primi mesi del 2020 sono tornati a casa. Non l’hanno fatto perché hanno”vinto”, non per la repressione subita, ma per ragioni sanitarie. Una nazione dopo l’altra, con il diffondersi della pandemia da Covid-19, ha costretto anche i più riottosi a isolarsi nelle proprie case per evitare il contagio. Così, sono finiti “in panchina” i manifestanti che nel 2019 avevano invaso le piazze di molti paesi, ma l’anno prima erano lì: manifestavano il loro disagio e la loro rabbia per la forte carenza di giustizia sociale e le mancate riforme politiche.
Algeria, Egitto, Sudan, Libano, Iran ,Iraq, Hong Kong … tutti paesi contagiati, allora, da focolai di rivolte, quasi a voler riprendere il filo interrotto dopo le “Primavere” di un decennio fa.
Ora il nuovo Coronavirus ha silenziato le proteste, ma non tutte: la maggior parte sono lì, pronte a riprendere fiato non appena sarà passata la minaccia più grande; pronte a riprendere la sfida a quei governanti che, oggi, si sentono più forti per il loro silenzio.

Eraldo Rollando
26-05-2020

Algeria, quasi un “Gattopardo”.
Dal 22 febbraio 2019 i cittadini del paese africano, riuniti nel movimento Hirak , hanno iniziato a protestare chiedendo le dimissioni del presidente Bouteflika.
Dimissioni difficili ma necessarie, per portare il paese ad una transizione che superi la corruzione, le diseguaglianze sociali crescenti e il continuo impoverimento degli strati più deboli della popolazione.
Il Presidente Bouteflika, nel 1999 era stato l’uomo che aveva permesso di uscire da un conflitto decennale tra gruppi integralisti del Fronte di salvezza islamica e le forze armate, che aveva provocato tra i 150mila e i 200mila morti. Nei suoi venti anni di governo ha saputo evitare che il terrorismo islamico, sempre presente, riuscisse a destabilizzare il paese. Ma un Presidente ormai lontano dalla scena politica per un ictus che, dal 2013 , lo ho reso incapace di governare, rappresenta sicuramente un freno allo sviluppo. Il regime, ben conscio dell’handicap presidenziale, aveva puntato sul fatto che gli algerini, traumatizzati dai morti mai dimenticati della guerra civile, non avrebbero voluto rischiare l’anarchia con nuove elezioni e avrebbero accettato di buon grado di rimandare a un periodo successivo la sostituzione del Presidente. Durante questo periodo non è noto chi abbia tenuto le redini del paese. Dopo 4 mandati consecutivi, le opposizioni al regime non hanno retto alla richiesta di un quinto mandato. E hanno dato il via alle proteste.
L’Algeria è una delle economie più cristallizzate e meno diversificate al mondo: il 97% dei proventi dello stato arrivano dalla vendita del petrolio. La struttura manifatturiera, che negli anni 70 aveva cercato di accelerare sulla modernizzazione, è rimasta al palo e risulta inesistente. Ogni oscillazione del mercato degli idrocarburi si riflette immediatamente sui numerosi problemi del paese. Non c’è da stupirsi della crescente insofferenza.
Il 2 aprile 2019, il Presidente (anni 82) dopo un mese e mezzo di pressing da parte dell’opposizione, delle manifestazioni di piazza e, dopo un periodo non breve di esitazioni, scaricato anche dall’esercito che si è schierato dalla parte dei manifestanti, decide di rassegnare le dimissioni, .
Alle ultime elezioni, tenutesi il 13 dicembre 2019, è andato a votare solo il 39% degli algerini: il tasso di partecipazione più basso nella storia del Paese.
Abdelmadjid Tebboune, è stato eletto presidente dell’Algeria, insediandosi il successivo 19 dicembre. Ma pare che poco o nulla sia cambiato o cambierà nel paese, secondo una dinamica del potere bene espressa nel romanzo Il Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” (frase di Tancredi, nipote del Principe di Salina, dal testo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa”)
Secondo Said Salhi, vicepresidente della LADDH ( Ligue algérienne pour la défense des droits de l’homme), in un’intervista rilasciata all’Agenzia indipendente Nena News ( Near East News Agency – Agenzia Stampa Vicino Oriente), “ il popolo algerino ha dovuto assistere a una transizione da un clan all’altro, transizione che si è consolidata con l’elezione di un nuovo rappresentante del sistema … il potere sta facendo di tutto per riprendere in mano il controllo della vita sociale … Siamo un paese che dipende fortemente dai proventi petroliferi e da anni viviamo in balia delle fluttuazioni dei prezzi. La centralità della rendita petrolifera produce cupidigia, corruzione ad alti livelli e distrugge il valore del lavoro … il popolo algerino deve riacquistare la sua sovranità ed esercitare la sua volontà per la costruzione di uno Stato democratico, sociale e civile”.

Ci rivedremo dopo il Covid-19

Nel frattempo, il movimento Hirak, che conduce sin dall’inizio la sua battaglia con lo slogan “YetnahawGaa” (Andatevene tutti), ha mantenuto il suo attivismo trasferendolo maggiormente sui social con discussioni e campagne di sensibilizzazione online in attesa del disgelo sanitario, con una promessa: “ci rivedremo dopo il Covid 19″.

Egitto, “primavere” a ripetizione.
Da tre anni, dopo un duplice attentato terroristico contro la minoranza cristiana nell’aprile 2017, in Egitto è operativa la legge marziale.
Sono sospesi i diritti fondamentali come quelli di manifestare e di espressione; ma la barriera che il Presidente Abdel Fattah al-Sisi ha costruito, il 20 settembre 2019 sotto la spinta di nuove manifestazioni di protesta ha cominciato a oscillare.
L’Egitto non è nuovo a rivolte contro il regime in carica.
Già nel 2011, manifestazioni suscitate da fame, povertà, corruzione e da un forte malessere della popolazione giovanile diedero luogo a scontri di piazza tra avversari e sostenitori del presidente Hosni Mubarak. Epicentro della contestazione fu l’ormai famosa piazza Tahrir dove, nelle giornate del 2 e 3 febbraio 2011, nella sola capitale si radunarono circa due milioni di manifestanti. E’ lì che ebbe inizio la “primavera araba” egiziana, sulla scia di quella tunisina di un anno prima.
L’11 febbraio il presidente, Mubarak venne costretto alle dimissioni.
Nel 2013, nel secondo anniversario della rivoluzione che ha deposto Mubarak,riprese forza la protesta, questa volta contro il presidente Mohamed Morsi, unico leader eletto democraticamente nella storia del paese a metà 2012 e in carica da un anno.
L’accusa che veniva rivolta a lui e ai Fratelli Mussulmani, il partito al potere che lo sosteneva, fu di avere tradito la rivoluzione con la modifica costituzionale in direzione di uno stato teocratico. Fu una protesta molto dura, con vittime e centinaia di feriti nelle principali città del paese.
Morsi fu deposto da un golpe guidato dall’attuale presidente al-Sisi dopo un anno segnato da divisioni sociali e crisi economica.
L’oggi è segnato dalla data del 20 settembre 2019.
Mohamed Alì, uomo d’affari egiziano, dal suo esilio spagnolo auto imposto, ha lanciato l’accusa al presidente al-Sisi di essere un corrotto, per avere utilizzato fondi pubblici per fini privati, sprecando cifre enormi in residenze lussuose e hotels, mentre milioni di egiziani vivono in povertà. “Io stesso ho costruito 5 ville per i suoi collaboratori”, pare abbia dichiarato Alì in uno dei vari video postasti sui social media; naturalmente, le accuse sono state rigettate dal presidente come “bugie e calunnie”.
La sfida al regime è stata lanciata e prontamente raccolta: nelle principali città del paese, in testa Il Cairo, Alessandria e Suez, hanno preso corpo manifestazioni che la polizia non ha mancato di reprimere con l’usuale durezza, operando decine di arresti.
Nuovamente, piazza Tahrir ha fatto da proscenio alle prime proteste da quando al-Sisi è salito al potere nel 2014.

Queste manifestazioni, con tutta probabilità, non porteranno, almeno nel breve periodo, alle dimissioni del presidente, dato l’assillante e capillare controllo che il regime opera fin dal suo insediamento su ogni forma di opposizione nascosta o manifesta; hanno, però, una forte valenza simbolica, tale da essere un probabile lievito di future sollevazioni, vicine o lontane nel tempo.
Il giorno successivo alla fiammata contestatrice, Human Rights Watch ha lanciato alle Agenzie di sicurezza l’accusa contro… di “avere usato una forza brutale per sedare le proteste pacifiche” e ha chiesto alle autorità di “proteggere il diritto a protestare pacificamente”.

Il 14 febbraio 2020, un nuovo protagonista si è affacciato sulla scena egiziana: il Covid-19, e anche quel paese ha iniziato a prendere i provvedimenti per il lockdown spegnendo, come effetto collaterale, ogni scintilla di contestazione.
Ai primi di maggio la presidenza di al-Sisi ha prorogato di altri tre mesi lo stato di emergenza sanitaria per fare fronte a condizioni “pericolose” per la sicurezza. Tutto normale, nell’ottica della pandemia, se non fosse che nel testo pubblicato dalla Gazzetta ufficiale egiziana si legge: ”le Forze armate e la Polizia devono adottare tutte le misure necessarie per la difesa dal terrorismo, per garantire la sicurezza e tutelare le proprietà pubbliche e private e la vita dei cittadini”  (Federico Zoja – Avvenire 1 maggio 2020).
Come dire: chi ha orecchie per capire, intenda.

Sudan, tutto è nato per un panino.
La scintilla della rivolta si è sviluppata come nel romanzo di Alessandro Manzoni “I Promessi sposi” dove, al capitolo XII, si racconta la vicenda (ambientata nel 1630) dell’assalto ai forni a Milano, causata dal forte aumento del prezzo del pane che aveva ridotto alla fame la popolazione. In Sudan, però, la vicenda era reale.
Il 19 dicembre 2018 ad Atbara, una cittadina di poco più di 100mila abitanti nel nord est del paese,ha avuto inizio la “rivolta del pane”, dilagata in pochi giorni ad altre 22 città, compresa la capitale Kartoum.
Poco tempo prima erano arrivati gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale a imporre un programma di austerità, a garanzia di un prestito che il governo del trentennale presidente Omar Hassan al-Bashir (trenta’nni di ininterrotta presidenza) aveva chiesto per porre rimedio al dissesto economico , procurato dallo stesso governo, che stava portando il paese sull’orlo della catastrofe economico-finanziaria.
E tra le misure adottate, quella della triplicazione del prezzo del pane fu ritenuta la più odiosa.
Un mese dopo, a metà gennaio del 2019, la protesta riprese fiato nella capitale Kartoum, mettendo in ombra la motivazione economica e facendo emergere quella politica, puntando il dito sul presidente al-Bashir che il suo partito aveva ricandidato alle presidenziali previste nel 2020.
Il presidente-dittatore, all’interno del paese godeva di sicuri appoggi e di un certo seguito popolare. Infatti, era rimasto al potere praticamente indisturbato anche dopo il 4 marzo 2009, quando la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia aveva emesso nei suoi confronti un mandato di arresto per crimini di guerra e genocidio commessi in Darfur. Ma quel panino rincarato si è rivelato alquanto indigesto. Quattro mesi di manifestazioni di piazza, dal 19 dicembre 2018 all’11 aprile 2019, hanno fatto evaporare il potere di al-Bashir come acqua nel deserto.
A dare il colpo di grazia si è rivelato decisivo l’Esercito che, con un golpe in piena regola ha assunto il potere. Non tutto era andato liscio durante le manifestazioni: lo testimonia il fatto che la comunità internazionale aveva esortato il Sudan a rispettare i diritti dei manifestanti e Human Rights Watch aveva documentato i fatti più gravi e diffuso dei video che mostravano la violenza attuata dalle forze di sicurezza.
Oggi, pare che la richiesta di democrazia abbia fatto breccia nella granitica compagine militare; dopo lunghe trattative il movimento della società civile ha trovato un accordo con i militari per la formazione di un governo di transizione, a composizione mista (civile e militare), che traghetti il paese sino alle elezioni del 2022.
Tutto risolto? E’ cambiata la forma di governo ed è nata la speranza di democrazia, il che non è poco, ma la situazione economica del paese rimane estremamente critica.

(6, continua)
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