Babele linguistica

Gabriella Carlon
30-01-2024

In questi tempi tormentati da due guerre a noi vicine (oltre a quelle più lontane) alcune espressioni ricorrono con particolare frequenza sulla bocca dei nostri politici, come anche nei media che fedelmente e insistentemente ce le riportano.
Per la guerra in Ucraina si invoca una “pace giusta” e per quella in Israele-Palestina si afferma il “diritto alla difesa” di Israele. Prese in sé le due espressioni sembrano la fiera delle banalità: qualcuno forse vorrebbe una pace ingiusta o non vorrebbe riconoscere il diritto alla difesa? Proprio per la loro ovvietà catturano consenso, ma cosa significano realmente?
“Pace giusta” significa che la Russia dovrebbe ritirarsi da tutti i territori occupati, compresa la Crimea, per ristabilire l’unità territoriale della “nazione” ucraina? “Diritto alla difesa” significa che Israele ha il diritto di distruggere Hamas?Cosa implicano queste affermazioni?
Sul primo punto si dovrebbe ammettere che uno stato che ha occupato militarmente un certo territorio lo abbandoni senza nulla in cambio: se si accetta la logica della guerra (come ha ampiamente fatto la NATO dominata dagli USA, con a ruota i governi dell’Unione europea), non si può pensare improvvisamente di avere scherzato, dopo migliaia di morti, per tornare alle posizioni di partenza. In guerra, si sa, non vince né la ragione né il diritto internazionale, ma soltanto la forza. “Pace giusta” significa allora che si vuole che la guerra continui fino alla sconfitta e al disfacimento della Federazione russa, come per altro è stato anche in alcune occasioni esplicitamente affermato? Con quali tempi, con quali allargamenti del conflitto e con quali armi è un’incognita imprevedibile; certamente con grave danno per l’Unione europea, già pesantemente colpita sul piano economico dalla guerra in corso.
Nel secondo caso, essendo chiaro che non si distrugge Hamas bombardando a tappeto la striscia di Gaza, l’operazione militare israeliana sembra piuttosto avere un altro obiettivo: occupare militarmente Gaza e anche la Cisgiordania, dove già ferve l’attività dei coloni, pur non essendo quel territorio in mano ad Hamas. Si tratta allora di sterminare il maggior numero possibile di Palestinesi per occupare la maggior parte possibile di territorio?
Stranamente alcuni osservatori e anche autorevoli cariche istituzionali sono tornati a rispolverare la soluzione “due popoli, due stati”, pur sapendo che tale prospettiva, proclamata fin dal lontano 1948,è risultata sempreimpossibile. E, soprattutto, dove si costituirebbero i due stati per i due popoli? Quale territorio sarebbe destinato allo stato palestinese se, da sempre, la Cisgiordania viene progressivamente invasa dai coloni armati, con distruzione di case, appropriazione di terre e uccisione di persone innocenti, bambini e anziani inclusi, nella totale indifferenza dei difensori del diritto internazionale? Dopo che per decenni è stata totalmente ignorata la relativa delibera dell’ONU e non si è fatto nulla per indurre i recalcitranti (sia israeliani che palestinesi) a metterla in atto. Che senso ha rispolverarla proprio oggi, quando le condizioni createsi nel frattempo ne rendono impossibile l’attuazione? A meno che non si vogliano confinare i palestinesi in qualche angolo di deserto, privo di acqua e delle risorse essenziali che rendono possibile una vita dignitosa.
Del resto la sproporzione tra morti israeliani e morti palestinesi, verificatasi in questi decenni, indica che più che un diritto alla difesa si è esercitato un “diritto alla vendetta su vasta scala” ogni volta che atti di terrorismo hanno caratterizzato la ribellione dei Palestinesi più esasperati. Certamente l’attacco del 7 ottobre per mano di Hamas è stato un atto orribile e non giustificabile in alcun modo. Ma non è giustificabile nemmeno il diritto alla vendetta, tacitamente riconosciuto anche oggi, tanto che il veto USA sta impedendo all’ONU di avanzare la richiesta di un “cessate il fuoco”. Per Israele non esiste diritto internazionale che abbia impedito l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme est, piuttosto che la costruzione del muro o l’oppressione di Gaza, chiamata dagli osservatori internazionali “prigione a cielo aperto”. In queste condizioni parlare di “due popoli, due stati” mi sembra propaganda e finzione retorica.
Eppure non mancherebbero né in campo palestinese né in quello israeliano voci moderate che auspicano una convivenza fondata sull’uguaglianza dei diritti tra tutti coloro che vivono su quella terra. Ma queste minoranze non conquistano la visibilità a cui potrebbero aspirare, anzi restano oscurate dagli atti efferati degli estremisti. Inoltre la critica alla reazione dell’attuale governo israeliano viene subito bollata come espressione di antisemitismo.
 

La stampa e i media in generale potrebbero aiutarci a cogliere l’ambiguità del linguaggio politico e le falsità della propaganda dei vari contendenti: solo con un’operazione di pulizia linguistica e di corretta comunicazione di quanto accade, l’opinione pubblica potrebbe essere aiutata a comprendere quale disegno politico si stia effettivamente perseguendo. Non mi sembra che, salvo rare eccezioni, ci sia capacità o voglia, da parte dei media,di assumersi questo compito, che sarebbe invece essenziale ai fini di una corretta informazione. E la corretta informazione non è l’asse portante della democrazia?
 

Tuttavia un fatto positivo, a mio giudizio, c’è: oggi non si osa più sostenere apertamente la guerra per entusiasmare e trascinare i popoli al martirio eroico. Si è costretti a parlare di “operazione speciale”, “pace giusta”, “diritto alla difesa”: chissà che sia vicino il tempo in cui sarà bandito non solo il nome della guerra, ma anche la res che gli corrisponde.

____________________________________________________________________________________________

Disclaimer   (clicca per leggere – puoi rivendicare diritti di proprietà su riferimenti e immagini)

 

Cultura e Società