Estrazioni minerarie in alto mare – Non aprite quella porta!


La salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo richiede una rapida implementazione delle nuove tecnologie per raggiungere gli obiettivi fissati con gli accordi internazionali. La corsa all’accaparramento delle risorse necessarie, in primis minerali e terre rare, ha attivato metodologie e tecniche non da tutti i ricercatori considerate sicure per l’ambiente sul quale operano.
Le miniere in fondo agli oceani sono le ultime arrivate nella lista

Eraldo Rollando
22-01-2024

 Premessa
Come noto, il piano messo a punto per raggiungere l’azzeramento delle emissioni nocive nell’ambiente, e scongiurare una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, prevede che entro il 2050  si passi in maniera quasi esclusiva  all’impiego di energia elettrica per alimentare in maniera diretta o indiretta (batterie o altri sistemi di accumulo dell’energia) ogni genere di impianto, dalla realizzazione di turbine eoliche, batterie per veicoli elettrici, e delle reti elettriche, alle batterie degli smartphone, per citare solo alcuni impieghi.
Per realizzare questo progetto, si rende necessario procedere alla conversione delle tecnologie produttive con l’impiego massiccio di vecchie e nuove materie prime. Tutte “subito”, per mantenere i tempi previsti dal piano, e in grandi quantità. Due condizioni che, oggi, agli esperti sembrano quasi irraggiungibili.

Riccardo Lo Bue, in un articolo pubblicato il 13/03/2023 da Scienza in rete, riferisce i dati contenuti nel report Energy Technology Perspectives 2023  realizzata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA).
Secondo questo studio, alla luce degli obiettivi fissati dallo Scenario Emissioni Nette Zero entro il 2050, la domanda stimata di ciascuno dei cinque minerali definiti critici (nichel, rame, litio, cobalto e neodimio) crescerà più velocemente dell’offerta, a un ritmo da 1,5 a 7 volte.
Per raggiungere la neutralità climatica, la Commissione Europea stima che al 2050 la domanda annua di litio da parte della Unione potrebbe aumentare di 56 volte rispetto ai livelli attuali, quella di cobalto di 15 mentre per le terre rare 10 volte.
Per fare fronte agli impellenti bisogni occorrerebbe aprire nuove miniere, la cui messa in produzione richiederebbe mediamente 17 anni e un investimento finanziario notevole. Due scogli da superare, sui quali rischia di naufragare la speranza di azzerare l’impiego di combustibili fossili. Indispensabile, quindi, ricorrere a nuove fonti estrattive. L’unica soluzione alternativa disponibile sembrerebbe essere quella di ricorrere all’estrazione mineraria dai fondali marini.
Da alcuni decenni assistiamo alla ricerca di questi minerali nelle profondità marine e alla successiva messa in attività di “miniere” in alto mare.
Fino a pochi anni fa argomento di studio, la soluzione sembra ormai matura per venire incontro alle esigenze dell’industria. Ma questa alternativa sarebbe tale, considerando l’inquinamento dei nostri mari e oceani? Vediamo di cosa si tratta.

Di cosa si parla e perché in alto mare
In breve: si tratta dei cosiddetti  noduli polimetallici
Negli anni 1872-1876, una spedizione scientifica oceanografica inglese imbarcata sulla nave Challenger, attrezzata allo scopo, durante il suo viaggio di 68.890 miglia marine portò a numerose scoperte, definite allora “il più grande progresso per la conoscenza del nostro pianeta dopo le celebrate scoperte del quindicesimo e del sedicesimo secolo”.
Oltre alle innumerevoli rilevazioni scientifiche eseguite, si scoprì l’esistenza di circa 4.717 nuove specie di vita marina e di depositi sottomarini di noduli polimetallici, dall’apparenza di un tappeto di “sassi”.
Quelli che si vedono nell’immagine, sono costituiti da un composto di ferro-manganese.
In quel periodo la scoperta non ebbe calda accoglienza, anzi fu quasi dimenticata; fino agli anni 80 del XX secolo, quando si riscontrò nei noduli la presenza di nickel, rame, oro, argento e cobalto, oltre a Terre Rare, cioè cerio, lantanio e itterbio, etc. nelle aree che ricoprono i versanti oceanici.
Oggi, l’attenzione alle riserve minerarie sottomarine, per le suddette ragioni, ha raggiunto livelli quasi ossessivi.

Ma, abbiamo risolto così tutti i nostri problemi?
Sembrerebbe di sì ma, a ben guardare, il rovescio di questa medaglia  consiste nei rischi per l’ambiente causati dalla modalità di recupero dei noduli.
E’ evidente che non possono essere raccolti singolarmente, ma solo con l’impiego di mezzi meccanici sottomarini comandati da una nave di appoggio in superficie.

Prototipo di macchinario DSM Observer (notare le dimensioni uomo/macchina)

 

La tecnologia ha messo a disposizione nuovi macchinari che, immersi a grande profondità (6-7000 metri), arano uno strato del fondo marino (circa 20 centimetri) “raccattando” oltre ai noduli tutto ciò che di vivo trovano sul percorso, ovvero specie animali e vegetali in gran parte sconosciute, che vengono poi rigettate in una nube di fanghiglia, trattenendo solo ciò che interessa al business.

 

 

 

Purtroppo, si conosce ancora molto poco dell’ambiente e della vita dei fondali oceanici, e queste operazioni, a detta dei ricercatori più attenti, possono procurare danni incalcolabili all’ecosistema acquatico sommerso. E c’è la quasi fondata certezza di ripetere in fondo agli oceani il disastro combinato sopra di essi.
In un articolo di Sabrina Weiss pubblicato l’8 agosto 2023 su National Geographic Italia , vengono riportate le osservazioni  di Diva Amon, biologa marina e National Geographic explorer: “ … una delle principali questioni è infatti fino a quali distanze le correnti delle profondità marine diffonderebbero tali nubi. Depositandosi nuovamente sul fondo, i sedimenti potrebbero soffocare le creature viventi che vivono anche molto lontano dall’area in cui si svolgono le operazioni …”

Da molte parti viene sollevata la questione della necessità di procedere a una moratoria delle estrazioni per dare modo a scienziati e biologi marini di valutare appieno la portata di queste attività. Ma il tempo manca e la pressione di aziende e Stati che hanno interesse a procedere senza indugi è molto forte.

Chi sarà il primo ad aprire quella porta?
Tra il Mare di Barents e il Mare di Groenlandia, si estende la piattaforma continentale della Norvegia, circa 280.000 chilometri quadrati – poco meno della superficie dell’Italia – sulla quale il governo di quel Paese sarebbe pronto a dare il via all’estrazione mineraria sottomarina che, trovandosi in acque territoriali norvegesi, non necessita di autorizzazioni da Paesi stranieri.
A tale proposito il Segretario di Stato norvegese Amund Vik,  ha dichiarato al Financial Times, “L’estrazione in acque profonde aiuterebbe l’Europa ad essere indipendente dalla Cina per quanto riguarda i minerali utili per favorire la transizione energetica”. (1) Gli ha fatto eco il ministro del Petrolio e dell’Energia Terje Aasland, che ha affermato “Abbiamo bisogno di minerali per riuscire nella transizione verde”. Come se la transizione verde si potesse fare recando gravi danni agli oceani, da cui dipende in gran parte la vita del nostro pianeta.
Nell’ultimo anno, varie ricerche effettuate sulla piattaforma, hanno portato alla scoperta di un ingente quantitativo di metalli critici e terre rare: si parla di milioni di tonnellate di rame (tra 21 e 38), tra 20 e 45 milioni di tonnellate di zinco, e poi cobalto e altre tonnellate di terre rare. Ma la Norvegia non è l’unico Paese a mettersi in corsa su questo fronte: Giappone, Nuova Zelanda e Isole Cook si stanno preparando ad aggredire i fondali oceanici.
L’amministratore delegato dell’azienda estrattiva mineraria norvegese Locke Marine Minerals ha dichiarato, sempre al Financial Times, che “se c’è qualcuno che deve arrivare per primo vogliamo essere noi”.
Un triste primato quello di essere il primo ad aprire una porta proibita che non si sa su quali ulteriori scenari di devastazione ambientale si affaccerà.

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Note:
foto d’apertura   Greenreport.it
(1) per leggere l’articolo del Finantial Time, si consiglia la seguente procedura: sulla barra di ricerca Google digitare “Finantial time Amund Vik”

La 28ª conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (
COP 28) si è svolta dal 30 novembre al 13 dicembre 2023 a Dubai

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