Una palude tra i cedri

 

Dio salvi il Libano. Sta male il Paese, ma nessuno dei Potenti sembra intenzionato a intervenire, tanto è intricata la situazione in quest’area del mondo. Solo la sofferenza di una parte della popolazione ha contezza delle difficoltà alle quali ogni giorno va incontro.

Eraldo Rollando
24-11-2021
Quindici anni di guerra civile, dal 1975 al 1990, non erano riusciti a distruggere il porto di Beirut. Il 4 luglio 2020 oltre 2700 tonnellate di nitrato di ammonio, inspiegabilmente stoccate nei magazzini del porto, nella loro tragica esplosione hanno ingoiato la  vita di 190 persone, ferite altre 6000 e annichilito un’infrastruttura strategica per l’economia del Paese.
La deflagrazione ha distrutto gran parte dei quartieri adiacenti, lasciando senza casa circa 300mila persone e causando danni per oltre 15 miliardi di dollari (fonte ISPI online).
Da quel giorno l’area portuale, che un tempo rappresentava il dinamismo “corsaro” della città, è ridotta a uno spazio triste e silente come invaso dagli alieni, complice la pandemia da Coronavirus che qui, come altrove, imperversa duramente.

Un disastro economico, finanziario, sociale e politico
Oggi, il panorama che si presenta è quello di un Paese sostanzialmente fallito: una bancarotta finanziaria, economica, sociale e politica.
Dal 2019 i correntisti libanesi non hanno la possibilità di accedere ai  loro conti in dollari, – si parla di circa 100 miliardi di dollari bloccati, pari al doppio del PIL del Paese negli anni precedenti alla crisi – ; l’inflazione, che dal 2010 era su una media annuale del 4 per cento, si è ritrovata nel 2021 al 138 per cento;  il cambio lira-dollaro è passato da 1515 lire libanesi per dollaro nel 2018 a 19364 nel 2021; nel 2020 il PIL ha subito un crollo del 20%.
Su 7 milioni di abitanti, un milione è in povertà assoluta e altri due sono sullo scivolo per raggiungerla. Sul territorio libanese sono presenti 1,5 milioni di rifugiati siriani e 400 mila profughi palestinesi, che sopravvivono soprattutto grazie alla missione Unifil dell’ONU. Parliamo di un insieme di poco meno di 5 milioni di persone in grave difficoltà, che rappresentano più del 50% di quelle presenti nel Paese, già inserito dalla Banca Mondiale tra i “top ten” delle peggiori crisi umanitarie al mondo dal 1850.
Da circa due anni la scarsità di benzina e combustibili in generale mette a dura prova le strutture pubbliche, le aziende private e i singoli cittadini.
A maggio 2021 la crisi energetica si è aggravata per la sospensione delle forniture di energia da parte dell’azienda turca Karpowership, che forniva al Paese circa il 25 per cento del suo fabbisogno. Il motivo? Da 18 mesi le forniture non venivano pagate e il debito del Libano era giunto a superare la cifra di 80 milioni di euro.

Blackout in Libano

Un pessimo segnale è arrivato il 9 ottobre 2021, quando le due principali centrali del Paese, Deir Ammar e Zahrani, sono rimaste a corto di olio combustibile e hanno cessato di alimentare la rete elettrica nazionale, creando un blackout totale per due giorni. La situazione è ritornata alla “normalità” dopo che l’esercito ha fornito combustibile ai due impianti. Una normalità fatta di ripetuti blackout, ai quali i numerosi generatori privati non possono fare fronte per l’ormai cronica scarsità di carburante. Una bomba sociale e politica che può far dirottare il Libano verso un tragico binario morto e contagiare tutta il vicino oriente.
In assenza di un deciso intervento in tempi brevi da parte della comunità internazionale, la fame e l’assenza di prospettive di tutte quelle “anime morte” possono fare volgere lo sguardo delle autorità all’unico Paese che ha tutta la convenienza politica e strategica a farsi avanti: l’Iran, che certo non lo farebbe per nobili motivi.
Quest’ultimo può già contare su un alleato che condiziona la vita politica del Paese dei cedri e che lo rifornisce assiduamente di armamenti. L’alleato è li e non aspetta altro che ricevere luce verde per allungare le mani sul Libano. Parliamo di  Hezbollah, un’organizzazione paramilitare islamista di fede sciita come l’Iran, nata nel 1982 durante l’invasione del Paese operata da Israele e oggi considerata più potente dell’esercito regolare libanese, che teorizza una politica di  annientamento e allunga la sua ombra su Beirut.

Spiragli di luce
A metà del 2021, qualcosa ha cominciato a muoversi: ancora una volta il Papa, che già prima della drammatica esplosione del  4 luglio 2020 aveva segnalato la situazione libanese, è intervenuto in modo risoluto a sostegno di  un intervento umanitario. Il primo luglio, infatti, durante la Giornata di preghiera per la pace in Libano, Francesco ha ribadito il proprio appello: ”Il Libano non può essere lasciato solo in balia della sorte  o di chi persegue senza scrupoli i propri interessi”.
Durante il precedente governo Netanyau, Israele aveva proposto a Beirut l’offerta di un pacchetto di aiuti umanitari che, forse per eccesso di orgoglio o a causa dei rapporti difficili e tormentati tra i due Paesi, venne lasciata cadere dal Libano.

Benny Gantz

Quasi in risposta all’appello del Pontefice, Gerusalemme ci riprova con Benny Gantz. Il suo l’interesse è umanitario ma anche strategico: tagliare la strada a Hezbollah che, come ricordato sopra, ha mire politiche e strategiche sul Paese.
Questa volta il nuovo ministro della difesa, artefice della sconfitta elettorale di Netanyahu – seppure per ragioni meno nobili del Papa – ha fatto sentire la sua voce dicendosi disposto a fornire aiuti attraverso la missione Unifil dell’ONU: “Israele ha offerto assistenza al Libano in passato e anche oggi siamo pronti ad agire e a incoraggiare altri Paesi a tendere una mano al Libano, in modo che possa ancora una volta fiorire e uscire dal suo stato di crisi” . Parole importanti, se si considera che tra i due Paesi non esistono relazioni diplomatiche né commerciali.
Un tentativo, anche questo, per evitare che l’implosione del Libano, incuneato tra Israele e Siria, finisca per diffondere l’instabilità a tutta l’area circostante, già di per sé critica.

La Politica a passo di lumaca
Emmanuel  Macron, subito dopo l’esplosione al porto, si è recato nel Paese per portare la sua solidarietà e una proposta, definita “iniziativa francese”, mirata alla formazione di un “gabinetto di specialisti” ristretto e della durata di sei mesi, il tempo necessario per mettere in atto una serie di riforme per attivare l’arrivo degli aiuti internazionali necessari alla ripresa economica e sociale.
I veti incrociati e i numerosi “desiderata” delle varie fazioni politiche hanno finito per fare naufragare l’iniziativa nel giro di poco più di un mese dalla nefasta esplosione.
Finalmente, dopo 13 mesi di frustrante e dannosa attesa, il 10 settembre 2021 un nuovo governo, guidato dall’uomo più ricco del Paese – politico e imprenditore privato –  Najib Mikati prende corpo.

Il sistema politico libanese è estremamente complicato: la composizione di un governo, così come la distribuzione delle più alte cariche dello Stato, riflette la varietà del “mosaico” libanese anche dal punto di vista delle appartenenze confessionali. In questo contesto, tutte le principali forze politiche presenti in Parlamento hanno garantito l’appoggio al nuovo esecutivo.

L’Agenzia d’informazione SIR segnala che “ … nella squadra di governo, oltre al premier sunnita Mikati e al vicepremier cristiano greco-ortodosso Saadeh al Shami, figurano 11 ministri cristiani, 9 ministri musulmani e due drusi. Tra i ministri cristiani si contano 5 maroniti, 2 greco-ortodossi, 2 greco-cattolici, un armeno apostolico, una cattolica di rito latino, l’indipendente Najla Riachi, ministra per la riforma dell’Amministrazione, che è anche l’unica donna cooptata nella squadra di governo. Tra i ministri musulmani, cinque sono sciiti e quattro sunniti.”

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La rappresentanza di tutte le fedi e le forze politiche riuscirà a concordare una linea comune e a far uscire il Paese dei cedri dalla palude in cui oggi si trova? Lo speriamo.
Intanto si profila all’orizzonte una nuova possibile causa di stallo: le nuove elezioni politiche sono programmate nel 2022.
Dio salvi il Libano!

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